Può risultare sorprendente, addirittura spiazzante, per il folto pubblico di aficionados che Moni Ovadia conta in tutta Italia, vederlo impegnato a condurre uno spettacolo che, almeno in apparenza, si discosta dal suo repertorio e dalle sue radici abituali. Perfino nell’abbigliamento è diverso dal solito, e al posto della cuffia che evoca la kippah, ha un cappelluccio a falda da profondo sud. Infatti Prapata pumpa, Padrone mio ti voglio arricchire (al teatro Vittoria ancora stasera e domani pomeriggio, poi in tournée) si discosta nettamente dalla cultura ebraica, dalle novelle yiddish e dalla musica klezmer, andando a cercare suoni e antiche ascendenze in Puglia, la terra di Matteo Salvatore. È a questo cantore dei cafoni e degli sfruttati del sud infatti che lo spettacolo è dedicato, alla sua musica e alla sua storia. E questa raccontano i testi dello spettacolo, firmati dallo stesso Ovadia, da Raffaele Nigro e da Cosimo Damiano Damato: Moni li dice con rispetto, e quasi pudore, mentre a cantare e reinventare quelle ballate e quelle liriche intrise di afa e sudore, ma di una vitalità immarcescibile che non si è arresa mai, sono la vocalist ed elettrica violinista Her (un vero fenomeno musicale, anche lei di origine pugliese nonostante l’acronimo) e la Bandafamenera.

Suoni che prendono una nuova, imprevedibile freschezza, arrangiati in modo nuovo e certo più «aggressivo»rispetto all’originale, ma pronti a essere trasmessi ad un pubblico che in gran parte Matteo Salvatore non l’ha mai sentito. Sembra compiersi sul palcoscenico qualcosa di simile a quanto scorre nella Notte della taranta, ovvero un flusso di musica e ritmo che porta anche lontano dalle origini, ma nasce e prende linfa dal culto quasi misterico di San Paolo che ogni anno fa la grazia ai tarantati, che hanno in quella danza battente e sfrenata la «punizione» per il morso subìto, e insieme il percorso di espiazione.

Ovadia spiega come l’omaggio nasca non solo dalla propria antica passione per i suoni dell’artista pugliese, ma per l’impulso dato alla ricerca su di lui da parte di Lucio Dalla. Che teneva molto a pagare quasi un debito d’onore a un artista che più di altri ha dato cuore e profondità alle melodie degli sfruttati del meridione. Chi l’aveva ascoltato e applaudito dal vivo tanti anni fa, nella sua regione come a Roma, dove era venuto ripetutamente (al Folkstudio e alla Ringhiera), prova davvero un brivido a sentire come quelle melodie di fatica e sfruttamento possano trovare nuova vita nel soul o nello swing di nuovi arrangiamenti. Altri spettatori invece, reagiscono incuriositi dal sentire in musica antichi racconti familiari di vita contadina.

Anche gli apparati elettronici della band riconoscono e trasmettono attraverso «padrone mio ti voglio arricchire» lo scherno disperato del bracciante fatto schiavo dal suo padrone. Non a caso Giovanna Marini, autorità somma del canto popolare e politico in Italia, lo usa come refrain di introduzione e accompagnamento abituale. Mentre si apprende ora, dallo spettacolo di Ovadia, la passione che aveva infiammato per quel mondo e quella sonorità, anche un ascoltatore attento come Italo Calvino. «In Francia – sosteneva convinto lo scrittore – sarebbe diventato uno chansonnier di culto come George Brassens». E un altro sostenitore di nome, ma questo si sapeva, era Domenico Modugno, anche lui pugliese in osmosi con la propria terra.

Un grande poeta fu davvero Matteo Salvatore, così intriso di quella sua terra e del suo retaggio assolato fino a farsene ottenebrare, quando, accecato dalla gelosia, arrivò ad uccidere la moglie, la donna dolcissima che cantava con lui. Un punto di non ritorno, ma che oggi, spiega Ovadia, ci porta ad usare per lui lo stesso doppio criterio che ci fa apprezzare Celine, feroce antisemita ma grandissimo scrittore.

Oggi che Matteo Salvatore non c’è più, restano le sue melodie struggenti, il canto di una terra e di una condizione che continua a vivere, emozionare, e parlare ancora.