Si può considerare l’incisione Melancolia I, che Albrecht Dürer datò e firmò nel 1514, uno dei vertici dell’arte europea del pieno Rinascimento. Per molto tempo si è tentato di comprendere il significato di quest’opera, di decodificarne i rimandi, le allusioni, di dischiudere il senso di questa composizione che, a un primo sguardo, può disorientare. La figura femminile in primo piano, col suo sguardo di sbieco; gli strumenti appesi sulla parete posteriore; i solidi geometrici che occupano la parte sinistra del foglio. Qual è il senso di tutto ciò? Che cosa voleva rappresentare Dürer?
Una risposta arrivò quasi un secolo fa, nel marzo 1923. Allora venne stampato un volume scritto da Erwin Panofsky e Fritz Saxl che con acribia ed erudizione permise di spiegare il significato dell’incisione düreriana. Distribuito a partire dall’anno seguente, era quello il secondo volume della collana «Studien der Bibliothek Warburg», allora ancora sita in Amburgo. Quel libro sta alla base del volume, di certo noto a un pubblico più ampio, della ricerca pubblicata nel 1964 dagli stessi autori, con l’aggiunta di Raymond Klibansky. Tra il 1923 e la metà degli anni essanta moltissime cose erano cambiate. In primis, la scomparsa di uno degli autori: Fritz Saxl, morto nel ’48. Lo stesso Istituto fondato da Aby Warburg era stato costretto all’esilio dalla Germania nazista e altrettanto gli intellettuali che lo animavano. Panofsky, dopo che i nazisti erano stati eletti al governo, risiedeva ormai negli Stati Uniti; Klibansky riparò dapprima nel Regno Unito, per poi giungere di là dall’Atlantico dopo la Seconda Guerra Mondiale.
A nemmeno tre anni di distanza dalla prima pubblicazione, nel 1926, gli autori avevano avviato i lavori per una nuova edizione che, in particolare, doveva ampliare la sezione dedicata al Medioevo e che sarebbe dovuta uscire in fretta. Fu questo il motivo del coinvolgimento del giovane Klibansky. Ma le cose non andarono come auspicato dai tre autori. Panofsky, dal canto suo, aveva ormai quasi del tutto abbandonato quello studio, forse anche perché legato a una stagione intellettuale completamente travolta dagli orrori del nazismo e della Seconda Guerra. Già così si comprende come quella del volume sia una storia lunga e accidentata, stratificatasi nel corso di decenni.
All’origine di tutto stava un saggio di Karl Giehlow pubblicato in due puntate nel 1903-’04 su una rivista viennese. Questo studio colpì profondamente Warburg. Di fatto i due, Giehlow e Warburg, si trovarono a ragionare su problemi simili. I due studiosi più giovani, Saxl e Panofsky, partirono dagli scritti e dalle conferenze di Warburg per sviluppare la loro interpretazione del foglio di Dürer. Dunque il libro del 1923 è la tappa di un lungo e complesso percorso che porta da Giehlow e Warburg, tra la Vienna e l’Amburgo del principio del Novecento, sino al volume del 1964. È quest’ultimo che venne tradotto da Einaudi, nella collana dei «Saggi», nei primi anni ottanta. Oggi è possibile leggere in italiano il primo testo di Saxl e Panofsky nella traduzione e per la cura di Emiliano De Vito, pubblicato dalla casa editrice Quodlibet: E. Panofsky, F. Saxl, La «Melancolia I» di Dürer Una ricerca storica sulle fonti e i tipi figurativi, con una introduzione di Claudia Wedepohl, pp. 307, euro 24,00).
I due studiosi si resero conto che per riuscire a spiegare il significato dell’opera di Dürer era necessario ricorrere all’aiuto di testi e fonti antiche, in particolare di argomento medico: era lì che si trovava la teorizzazione dei diversi stati, o «umori», di cui il «melancolico» fa parte. I testi greci, dunque. Erano forse noti a Dürer? Certamente no. Allora come spiegare che nella sua incisione l’artista sia ricorso a quelle antiche teorie? Ecco, il volume è un vero e proprio viaggio che dimostra la sopravvivenza e i mutamenti di queste idee sino al Cinquecento dell’artista tedesco. La sterminata erudizione che lo sostiene, con i suoi complessi apparati di appendici testuali e tabelle, è funzionale proprio a indicare come i testi greci siano stati traghettati di secolo in secolo e come, di volta in volta, si siano cristallizzate delle formule (testuali, ma anche visive) che a essi si ispiravano.
Ci sono però delle differenze tra questa edizione, che potremmo definire una Ur-Melancolia, e il volume del 1964. Anche il titolo è cambiato: Saturno e la Melancolia. Quello che si sottolinea è un elemento già presente nel testo del 1923, cioè il legame tra il dio antico Saturno e l’«umore melancolico», ma che nel volume dei tre autori si sceglie di sottolineare in modo ancora più forte. Uno degli aspetti centrali nel testo del 1923, dichiarato sin dal sottotitolo, è la ricerca sui «tipi figurativi»: un assunto che non può non richiamare, al massimo grado, le ricerche warburghiane sulla sopravvivenza delle forme visive antiche.
È con questo saggio che si spiega perché una figura con la testa reclinata sul braccio rimanda all’«umor melancolico». È una «formula» (nel senso in cui la parola è usata da Warburg) sopravvissuta nei secoli e che avrebbe traversato le epoche. Ma, come sempre accade in questi casi, nel corso del tempo i significati mutano e si ri-combinano. Così è accaduto, infatti, anche all’immagine della Melancolia che Dürer rappresenta. Il punto di riferimento dell’artista è la tradizione umanistica e pre-umanistica che s’incarna al massimo grado nella trattatistica di matrice neoplatonica fiorentina – un nome su tutti: Marsilio Ficino. I riferimenti all’astrologia dei pianeti (in particolare Saturno e Giove) e alla scienza medica antica divengono anche qualcosa d’altro, si arricchiscono di una particolare sfumatura che conferisce alla stampa düreriana il sapore di una riflessione sull’attitudine «teoretica», una riflessione, cioè, sulla conoscenza e sulla possibilità di accedere a essa. Una dimensione, questa, che in certo senso è rispecchiata nel testo stesso, che compie un immenso sforzo esegetico per penetrare nell’universo simbolico messo in scena da Dürer.
Da allora si può dire che le interpretazioni e le letture della stampa dell’artista tedesco si siano susseguite senza soluzione di continuità, ma resta il fatto che quello di Saxl e Panofsky è anche un libro che testimonia della vitalità del metodo warburghiano (come ha scritto Joseph Connors, «Melancolia è un termine chiave tra i primi circoli warburghiani») e della sua – anche se la definizione è impropria – ‘scuola’, che avrebbe continuato a dare i suoi frutti nel corso di tutto il secolo. Accompagnato dall’introduzione della Wedepohl e chiuso da una postfazione di De Vito, testi che aiutano tanto a situare il volume nel fervido clima intellettuale tedesco dei roaring twenties che a seguirne la fortuna e la ricezione presso autori come Walter Benjamin, il volume è anche un esempio eloquente da contrapporre a facili – e purtroppo sempre più diffusi – costumi interpretativi. Ecco, di certo questo non è un libro ‘facile’; è una lettura che richiede pazienza e una certa dose di tenacia, è un eruditissimo viaggio attraverso i secoli e le culture. Eppure, anche per questo, val forse la pena di apprezzare la sfida raccolta dalla casa editrice che, in un panorama editoriale alquanto deprimente e sempre più orientato alle proiezioni di vendita, ha scelto di riproporre questo libro.