«Al di là del famoso Oceano, sul confine, verso la notte» si trovava, secondo Esiodo, il Giardino delle Esperidi. Un luogo leggendario, dove un albero carico di mele d’oro, dono di nozze della Madre Terra a Hera nel giorno del suo matrimonio con Zeus, divenne il centro di tante storie. Le mele ricorrono numerose nella mitologia e nelle storie, da quella famosa di Adamo ed Eva, a Idun, dea norrena dell’immortalità o all’isola di Avalon, la «terra dei pomi» celtica.
Comune a tutte è l’idea di paradiso, giardino chiuso in cui abbondano gli alberi da frutto. Poco a poco la storia degli alberi da frutto si intreccia con quella dell’uomo. Da lontane regioni asiatiche si diffondono in Grecia e poi in tutto l’Occidente, oltre al melo anche il pero, l’albicocco, il ciliegio, l’amarena, il pesco, il susino, il pistacchio, il noce, insieme alle diverse tecniche di coltivazione.
Nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo i frutteti hanno funzione produttiva ed estetica, giardino e frutteto hanno lo stesso ruolo, lo stesso disegno e significato. Senofonte descrive i grandi frutteti realizzati in Persia da Ciro il Grande «pieni di tutte le cose belle e buone che la terra può produrre».

Il pomo afrodisiaco

Associata a significati diversi e anche opposti tra loro, la mela ha sempre simboleggiato l’amore, la bellezza, la fortuna, la salute e la saggezza, ma anche la tentazione, la sensualità, la sessualità e la fertilità. Infiniti sono i riferimenti nella letteratura latina classica: Catone, Columella e Plinio ne citano più di venti varietà, nel Capitolare di Carlo Magno sono contenuti elenchi, consigli e raccomandazioni sulla loro coltivazione e conservazione. Per Orazio l’Italia sembrava essere un unico, grande frutteto, mentre Cicerone raccomanda ai suoi concittadini di non gettare i semi della mela che possono essere piantati per creare nuove coltivazioni.
Insomma, sembra che già anticamente le mele venissero considerate l’ideale a fine pasto per il sapore squisito, per aiutare la digestione e da usare come afrodisiaco. Così gli alberi di mele cominciarono presto a diffondersi nei giardini dei potenti, negli orti e nei campi dei contadini. E così, insieme a tante altre piante da frutto, cominciarono a far parte della nostra storia, come i monumenti o le opere d’arte, e a rappresentare una parte della nostra cultura e del nostro paesaggio. Erano in filari a sostenere le viti, ombreggiavano gli orti e delimitavano i confini. Quando ci si sposava, spesso facevano parte della dote anche le marze di fruttiferi o i semi di cereali, legumi e ortaggi. Il materiale genetico, o germoplasma, veniva scambiato tra i contadini come un dono, una promessa di buoni sapori.
Anche re e regine hanno contribuito alla diffusione di tante varietà: Eleonora di Provenza, moglie di Enrico III portò dalla sua terra natia al suo giardino a Westminster la pera «Caillhou». Dalla Francia arrivò in Inghilterra anche la mela «Blandurel» oggi conosciuta come «Calville Blanc d’Hiver», grazie a Eleonora di Castiglia, moglie di Edoardo I.
Così nei giardini e frutteti dei grandi palazzi, nei conventi, negli orti e nei campi nelle più sperdute valli montane o nell’intimità della campagna sono state selezionate per secoli le varietà migliori in grado di adattarsi a diversi tipi di terreno e condizioni climatiche, differenziate per precocità, uso medicinale o conservazione. Nei vecchi trattati di agricoltura, la frutta veniva catalogata in funzione dei diversi usi, da consumare fresca, da conservare, da essiccare, da sidro, per uso medicinale, e si poneva molta attenzione nei diversi sistemi di raccolta e di conservazione tipici per ogni varietà. Quelle varietà erano resistenti a malattie e attacchi di insetti, funghi, batteri e virus.
Già nell’800 Giorgio Gallesio si era accorto di tale e tanta abbondanza tanto da comporre la sua grande opera, Pomona Italiana, dove appunto cataloga e illustra per la prima volta tutte le varietà di frutta presenti sulla penisola. «Esistevano in Italia un gran numero di varietà squisite, ignote agli Oltramontani, particolari alle diverse province che le possiedono, e suscettibili di essere raccolte e riunite, e di formare da loro sole una bella e ricca Pomona». Oggi in qualche orto, nei giardini delle vecchie case di campagna, nei chiostri di antichi monasteri o in piccoli frutteti inselvatichiti resiste ancora qualcuno di quegli alberi. Chiamati ormai «antiche varietà» parlano di appartenenza e identità, non solo botanica, ma legata a una civiltà contadina attenta agli equilibri naturali, sinonimo di un rapporto profondo con la natura perché integrata nella vita di tutti i giorni.
Certo, sono difficili da trovare e da classificare con esattezza, anche perché gli anziani spesso ne ricordano solo il nome dialettale. La pera briaca, la mela limoncella, la susina scosciamonaca, la pesca cotogna, la ciliegia zambella, l’uva delle vecchie, il fico melanzana: tutti nomi che variano da una località all’altra, collegati alla forma, al sapore, al profumo, al luogo di provenienza, all’epoca di maturazione, al contadino che la coltivava, e cioè alla storia della stretta relazione tra l’uomo e la pianta stessa. Un vasto vocabolario che sembra avere un’esistenza propria, espressione di una pratica millenaria, di un mondo vernacolare poetico e ricco di significati. Piante quindi particolarmente istruttive, che possono e dovrebbero essere studiate come libri, dal momento che vi possiamo leggere chiaramente un ricco patrimonio di tradizioni, saperi e conoscenze.
Ma di tutto questo patrimonio cosa rimane oggi? Per fare solo un esempio, mentre un tempo le varietà di mele coltivate erano centinaia, oggi l’80% della nostra produzione si compone di sole tre varietà. Poco, anzi quasi niente rimane di quel prezioso patrimonio. Ma forse la situazione non è così disperata. Negli ultimi anni si è avviato un processo di riscoperta, ormai sempre più diffuso, per salvare dall’estinzione almeno qualcuna di queste antiche piante di mele e di altri frutti, che possono tornare nei campi, nei giardini, in nuovi frutteti e sulla tavola.
Sono numerosi gli studi, i progetti, i gruppi, le associazioni, i vivai specializzati che una serie di nuove funzioni alle varietà autoctone a rischio di estinzione, non solo strettamente produttive, ma anche paesaggistica, etnobotanica, didattica, turistica e gastronomica.
In Provenza, nel Parco Naturale del Luberon, si svolge dall’inizio degli anni ottanta un importante lavoro di recupero, inventario e sviluppo delle numerose varietà antiche di piante da frutto della zona. Oltre alla conservazione di 400 varietà all’interno della Maison de la Biodiversitè, con il progetto «Vergers paysans», il parco regala ai contadini le piante di queste varietà, e organizza corsi sulla potatura e la manutanzione e ne promuove i prodotti. In cambio i contadini si impegnano a mantenere in produzione le piante per un periodo di otto anni e possono fornire al parco, in caso di bisogno, materiale vegetale per la moltiplicazione.
Oggi sono più di venticinque i presidi Slow Food che tutelano la frutta di antiche varietà come la pera cocomerina in Emilia Romagna, il fico mandorlato in Puglia, le susine bianche in Sicilia, le albicocche di Valleggia in Ligura, le mele rosa delle Marche… Con un regolamento severo e un logo specifico, Slow Food sta aiutando centinaia di produttori a proseguire la propria attività, contribuendo anche a dimostrare che un’altra agricoltura e un’altra produzione alimentare sono possibili.
La scomparsa di tante varietà ha coinvolto anche tutti quei piccoli, gustosi frutti autunnali come mirabolani, biricoccoli, prugnoli, giuggioli, nespoli, azzeruoli e cornioli. Sono varietà minori, ormai spontanee o semiselvatiche, certamente poco coltivate, che rischiano di sparire nonostante siano molto rustiche e facilissime da coltivare. Non necessitano di grandi cure o potature, resistono al freddo e alla siccità, ai terreni poveri o argillosi. Sono l’ideale in un giardino a bassa manutenzione dove possono esibire fioriture spettacolari in primavera e fruttificare liberamente.

La pera ghiacciola

Uscito quest’anno, il film The Fruit Hunters del regista cinese canadese Yung Chang ci immerge in un meraviglioso mondo fatto di frutti rari, perduti o ritrovati, dove cacciatori di frutta studiano, lavorano e viaggiano pur di recuperarli e tentare di conservarne la produzione. Presentato in anteprima in Italia al Festival CinemAmbiente di Torino, il film spiega l’importanza di mantenere una tale mirabolante diversità fatta centinaia di migliaia di frutti di tutti i tipi, come manghi che sanno di piña colada, mirtilli bianchi, albicocche blu, limoni rossi o lamponi gialli. Oltre a quelle poche specie che dominano il mercato, si scopre un mondo di frutti sconosciuti, dimenticati, e a volte anche proibiti.
Ma oltre al mango bianco di Bali o il kura-kura durian del Borneo, ritroviamo anche varietà di fichi, pere e mele italiani quasi scomparsi, di cui parla l’unica presenza italiana del film, quella di Isabella Dalla Ragione, fondatrice insieme al padre Livio di Archeologia Arborea (www.archeologiaarborea.org), una fondazione e un frutteto collezione, a San Lorenzo di Lerchi in Umbria. Oggi Isabella collabora con Regioni, Università e Parchi Naturali a diversi progetti per la conservazione della biodiversità di specie da frutto. Instancabile ricercatrice, cerca conferma del suo lavoro all’aperto negli archivi e nelle biblioteche dove spesso trova la precisa descrizione di tanti antichi frutti nei testi di Varrone, Plinio o Mattioli, che ricordavano che per assaggiare un fico maturo bisogna aspettare che «abbia il collo torto, la camicia stracciata da furfante e l’occhio lacrimoso». O che durante i periodi di grande calura consigliavano di mordere una pera ghiacciola che disseta più di un bicchier d’acqua.