C’era una volta l’università di massa e il ceto medio che ha affidato alla laurea la speranza di migliorare la propria condizione sociale e professionale. Nel lungo Dopoguerra è stato così fino al 1980 quando l’ascensore sociale ha iniziato a bloccarsi, prima a scatti, poi per periodi più lunghi. Oggi, sostengono Paolo Naticchioni, Michele Raitano e Claudia Vittori in uno studio pubblicato sull’ultimo numero del «menabò» online dell’associazione «Etica e economia» fondata da Luciano Barca, sta precipitando come in un film horror.

Gli studiosi hanno messo a confronto tre generazioni nate fra il 1965 e il 1979, vale a dire i figli della generazione nata a cavallo o subito dopo la guerra mondiale e hanno dimostrato come l’andamento delle retribuzioni di un campione di lavoratori dipendenti privati con età compresa tra i 35 e i 39 anni sia chiaramente inferiore rispetto ai salari delle due coorti precedenti.

Chi è nato tra il 1970 e il 1974 e si è laureato, ha subìto una perdita pari a poco meno di 5 mila euro nella prima fase della carriera, che cresce a 8100 euro per chi è nato tra il 1975 e il 1979. Se poi si confronta la situazione dei 35-39enni con i nati nella seconda metà degli anni Sessanta, i salari d’ingresso sono inferiori di oltre il 20% e il divario tende ad aumentare negli anni seguenti, minando le prospettive di carriere lavorative durevoli.

Questi laureati hanno perso complessivamente 35.500 euro rispetto ai nati nel periodo 1965-1969. La perdita è molto forte anche tra chi è nato nel primo decennio degli anni Settanta, fra cui rientra chi ha iniziato a lavorare nella crisi occupazionale del 1992-3 e nei cinque anni successivi quando il centro-sinistra di Prodi approvò la prima riforma sulla precarizzazione: il cosiddetto «pacchetto Treu».

In questo caso la perdita è stata quantificata in 29 mila euro.
I diplomati, che si presume essere meno qualificati, hanno risentito di una politica che ha mescolato i bassi salari con la precarizzazione generalizzata: rispettivamente 16.700 e 9.100 euro a discapito dei nati nella seconda e nella prima metà degli anni Settanta, ma sembrano riconquistare terreno nei primi anni della loro «carriera».

I divari accumulati sono infatti inferiori rispetto a quelli dei laureati: 2.800 e 2.100 euro a discapito di chi è nato alla fine o all’inizio degli anni Settanta. In questo scenario di crescente proletarizzazione del lavoro dipendente, e autonomo, sia quello della conoscenza che quello «esecutivo», sembra essere sfumata l’equazione tra alto livello di istruzione e reddito elevato, il pilastro sul quale è stata costruita la categoria sociale del ceto medio.

Lo squilibrio crescente tra i redditi nel passaggio da una generazione all’altra, la perdita del prestigio sociale legato alla conquista di un titolo di studio, l’erosione dello status professionale in direzione di un bric-à-brac precario e esistenziale, ha annientato l’alta considerazione di sé diffusa sia nel lavoro indipendente che in quello dipendente, come dimostra oggi la condizione dei giovani avvocati, architetti o medici sempre più disoccupati, precari o senza futuro.

Ma c’è di più, avvertono Naticchioni, Raitano e Vittori. Se questa, infatti, è la situazione dei nati prima degli anni Ottanta, nettamente peggiore è quella attuale di tutti coloro che sono venuti al mondo in Italia dal 1981 in poi. «Questi giovani sono stati penalizzati anche da una più ridotta partecipazione al mercato del lavoro, probabilmente in seguito alle riforme che hanno favorito la discontinuità delle prestazioni lavorative».

Chi ha tra i 15 e i 34 anni, definito in maniera variopinta come «Neet», «scoraggiato» o «precari», è stato affossato dalle politiche economiche basate sul taglio dei salari e sulla precarizzazione selvaggia seguita alla riforma Biagi e poi a quella Fornero. In attesa degli esiti di quella Poletti che ha reso i contratti a termine «acausali» («uno sconcio etico e incostituzionale» l’ha definita il giuslavorista Piergiovanni Alleva sul nostro giornale), è presumibile che i salari d’ingresso della generazione più giovane siano nettamente più bassi rispetto all’ultima coorte analizzata da Naticchioni, Raitano e Vittori.

Un altro motivo d’interesse di questo studio è la netta smentita della leggenda molto in voga nel ceto dominante nell’epoca Gelmini: in Italia non ci sono laureati in eccesso. Sarebbe vero se la domanda di lavoro qualificato fosse rimasta stabile o fosse cresciuta meno dell’offerta. Invece, l’Italia è uno dei paesi Ocse con il più basso tasso d’istruzione, ha il 15% dei laureati contro il 25-35% di Francia e Germania. Il ceto medio è stato stritolato dalla peculiarità della struttura produttiva contraria all’innovazione, pervicace sostenitrice del contenimento dei costi, fanatica del precariato. Le prospettive non migliorerano intervenendo sul lato dell’offerta, proprio come sta facendo il governo Renzi, ma incidendo sul lato della domanda.