Si sta per aprire una grande stagione per la moda, decisiva per capire se resterà impantanata nella mediocrità del momento o se saprà ritornare a rompere gli schemi. Tra meno di una settimana, il 9 febbraio, New York inaugurerà il calendario lungo un mese delle sfilate per le collezioni autunno/inverno 2017-18. Seguiranno Londra, Milano e Parigi. L’abusato rito, si canterebbe in un melodramma verdiano, terminerà il 7 marzo. E proprio qui suona altissimo lo stridore del campanello d’allarme, perché con la fine di questo turno di sfilate la moda chiuderà un ciclo che, durando da molti anni, si è usurato per l’incapacità del sistema di sapere riconoscere e gestire il cambiamento che esso stesso ha messo in atto.

Le voci per riempire le pagine dei cahiers de doléances non mancano. A cominciare dalla situazione di New York. Tempo fa, commentando la politica aggressiva del Council of Designers of America (la Camera della moda Usa), ManiFashion sosteneva che solo Anna Wintour, la direttrice di Vogue Usa che spingeva per un rafforzamento della fashion week locale, potesse credere che su New York si potesse concentrare il fashion system mondiale. Negli anni, il sistema americano si è mostrato per quello che era, debole e ininfluente, appiattito sulle così dette collezioni Contemporary che, da punto di vista creativo sono soltanto un gradino sopra al fast fashion e per lo più neanche prodotte negli Usa. Il risultato è che ora New York fa fatica ad allestire un calendario e molti marchi stanno migrando a Los Angeles, dove il business prodotto dagli abiti prestati alle celebrities rende di più anche mediaticamente. Il segnale è forte perché tra le varie cose che non funzionano, quella più usurata è proprio la sequenza stagionale delle Fashion Week che si replicano in una perdita di senso che ha demolito l’appeal verso un settore che non fa più parte delle attenzioni di quello stesso pubblico che dovrebbe garantirne il successo.

Perché se a New York probabilmente non si sfilerà più e su Londra è meglio stendere un’organza pietosa, anche il calendario di Milano soffre per l’inconsistenza dell’offerta e la riduzione a otto giorni della fashion Week di Parigi certifica quello che ormai tutti sanno e pochi dicono: che così come sono le sfilate non servono più a nulla, se non a nutrire un indotto oramai costretto a lavorare con budget sempre più risicati.

Se a tutto questo si aggiunge la crisi d’identità di cui stanno soffrendo molte griffes, con gli stilisti/direttori creativi che ormai scappano dalle Maison come se fossero in atto dei progrom (l’ultimo è Riccardo Tisci che ha appena lasciato Givenchy dopo 12 anni) e con i manager che, come tutti coloro che amano mantenere lo status quo, pensano di risolvere i problemi con l’unica strategia che conoscono, lo schiacciamento verso la mediocrità. Perché il vero male di cui soffre la moda è la Mediocrazia, come lo definisce il titolo del libro di Alain Deneault (pubblicato in Italia da Neri Pozza). Il filosofo dell’università di Montreal scrive che la mediocrità è la ripetizione del sempre uguale che garantisce la stabilità dei rapporti sociali e di potere. Ora, così intesa, la mediocrità si è fatta sistema anche nella moda che, negando se stessa, è diventata un settore mediocratico in cui non c’è più posto per la rottura dei codici dominanti. E, infatti, a chi ama la moda per la sua capacità creativo-sovversiva questo terribile mediocrismo, che non fa prendere coscienza del cambiamento necessario, appare privo di senso.

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