Se in Danimarca le lezioni per i più piccoli sono riprese nei parchi divertimento, nei musei, negli zoo e anche dentro lo stadio, a Roma c’è un liceo che ha deciso di fare la maturità all’aperto: è il liceo scientifico statale J. K. Kennedy, che sorge in quella che fu un’area degli Sciarra, nel quartiere di Monteverde e può contare su vasti spazi en plein air.

Soprattutto, è una delle poche scuole che ha la fortuna di avere grandi campi sportivi a disposizione degli studenti (in molti istituti bisogna addirittura emigrare dal proprio plesso per raggiungere le agognate palestre).

Ed è proprio guardando quelle «zone franche», oggi desolatamente vuote e senza il vociare allegro dei ragazzi e ragazze, che la dirigente Lidia Cangemi, alla guida dell’istituto dal 2013, ha avuto l’idea: maturità certamente in presenza, ma anche con una buona dose di benessere, emotivo e fisico.

«Ho pensato alla difficoltà, anche per i docenti, di resistere ore e ore al chiuso con le mascherine, senza condizionatori, al caldo. Perché allora non tornare a ospitare tutti nei campi sportivi, luoghi che hanno sempre rappresentato i momenti gioiosi della didattica? Collegare la maturità alla salute mi è sembrato fondamentale. Un rientro piacevole a scuola, ’universo’ di affezione per molti e anche di appartenenza per più generazioni, che in questo liceo si sono scambiate il testimone. D’altronde, tutto l’edificio è un ambiente di apprendimento. A quel punto, era importante far partire la macchina organizzativa, complessa ma non impossibile. Sono architetta di formazione e non mi spaventava dover adeguare gli spazi in totale sicurezza, nel rispetto della situazione di emergenza: abbiamo deciso di farlo condividendo la scelta con i lavoratori, dopo un’assemblea sindacale e un consiglio di istituto. Proprio al Kennedy abbiamo fondato il Dada (un sistema di apprendimento e insegnamento attivo in cui si collabora insieme alla costruzione dei saperi, ndr) e crediamo fortemente anche per il futuro a una scuola diversa».

Sostenere un esame all’aperto, respirando a pieni polmoni – magari riuscendo a vedere più compagni della propria classe per il saluto conviviale alla fine di un percorso che è stato collettivo e poi così drammaticamente interrotto -, sprigiona almeno un immaginario di libertà, lontano anni luce dalle assurde teche da museo in cui si vorrebbero incapsulare gli alunni e le alunne per rispettare il «distanziamento sociale» (trasformando tutti in Biancaneve – non dormiente ma sveglia – dentro una bara di cristallo in verticale).

Ma quel «rito di passaggio», l’esame di stato che in Italia fu abolito solo nel 1943, durante la guerra, era così necessario nell’era del Covid e con lezioni, verifiche e interrogazioni online come se si stesse in un’aula tradizionale?

«Ritengo di sì – continua la dirigente Lidia Cangemi – c’è tanta letteratura intorno a quel momento della vita e credo che sostenere la propria maturità sia anche il desiderio della maggior parte degli studenti. Sarà ovviamente un esame più breve e sintetico, diverso da quelli degli anni passati, per rispetto anche al malessere che questi giovani si sono portati dentro in mesi duri, chiusi a casa, da soli, a 18 anni. Eppure, il livello di partecipazione a distanza è stato più alto che nelle aule, ci tenevano a ’incontrare’ i loro professori».

Si parla però di grandi sacche di dispersione scolastica e non tutti hanno avuto un accesso facilitato alla tecnologia…

«Sì, è vero. Le differenze sociali e famigliari ci sono. Il Kennedy ha attuato un comodato d’uso per computer e tablet per aiutare chi ne aveva bisogno».