«Ero andata troppo vicina al fulcro incandescente delle cose». Quali siano i pericoli di tale prossimità ce lo spiega la scrittrice statunitense Elisa Albert, lungo le pagine di Baby Blues (Marsilio, pp. 199, euro 16.50, traduzione di Gioia Guerzoni). Il titolo della edizione italiana (a differenza dell’originale After birth) manifesta la zona esplorata: una complessa esperienza di maternità, il «baby blues» è infatti la malinconia che costeggia la cosiddetta depressione post partum. L’autrice ne scrive con decisione, setacciando quel che è il dissesto insieme alla forza assunta dalle parole deputate a nominare il mondo, crudeli e schiette perché esplorano tremendo e stupore. Protagonista del romanzo è Ari che incontriamo dopo la nascita del suo primo e unico figlio, Walker. E se incolmabile sembra essere il suo vuoto, Baby Blues è costruito seguendo un’urgenza fiammeggiante del dire ciò che – nel senso comune – si preferirebbe tacere. Terreno opaco che il dispositivo letterario è capace di consegnare senza retorica, puntellandolo della potenza simbolica che si trova nella condivisione esperienziale con altre donne: «è bello trovare una vera sorellanza – precisa Albert, raggiunta per qualche domanda -, non sono invece interessata a quella fasulla, né a quella troppo entusiasta o che si rappresenta simile a un brand. La vera sorellanza accade (oppure no) là dove nessuno guarda».

Quando e perché ha scritto il suo romanzo?
Avevo avuto un figlio e sono rimasta sconvolta dal contrasto tra l’esperienza vissuta e le sciocchezze, oltreché l’assoluto silenzio, che la circondavano. Poi ho cominciato ad accorgermi dell’ondata di amici e colleghi, parenti e conoscenti, che crescevano bambini, restando impressionata da quanto ben pochi di loro comprendessero le implicazioni più grandi in cui erano coinvolti – la storia, la biologia, la politica. Quindi suppongo che la ragione per cui ho scritto il libro sia una: lo shock.

Ari sembra vivere quella che comunemente viene indicata come «depressione post-partum». Da dove viene la sua rabbia e cosa desidera per sé?
Trovo bizzarra e curiosa la pratica di assegnare a personaggi fittizi delle diagnosi psichiatriche. Credo che la rabbia di Ari provenga dall’essere immersa in un tipo di cultura in cui i paesaggi emotivi delle donne siano patologizzati. Se dovessi indovinare, direi che desidera «il diritto» ai suoi sentimenti sulla propria esperienza vissuta senza l’onere assurdo (e condiscendente) di etichette simili.

Lei ha dichiarato di aver concepito questo libro come una sorta di romanzo sul «combattimento femminile». E in effetti le donne descritte sembrano delle sopravvissute. Da cosa sono scampate?
Dalle bugie, ovviamente. Su ciò che i loro corpi sono e possono compiere, su ciò che devono acquistare o sottoscrivere. Menzogne circa le relazioni che dovrebbe intrattenere, su come si dovrebbero sentire. E altrettante falsità a proposito del modo in cui dovrebbero comunicare con se stesse e con gli altri.

I corpi al centro della narrazione sono feroci, impazienti, così animaleschi eppure disperatamente umani…
Quando cerchiamo di vivere come se ciò che succede dalla testa in su possa essere separabile da ciò che accade dalla testa in giù, ecco sì: siamo più ottusi delle scimmie.

«Nemmeno l’uomo migliore della terra può curare la solitudine». Che ruolo hanno i personaggi maschili nella sua storia?
Gli uomini non sono centrali nella narrazione, non possono esserlo. Per quanto possiamo avere bisogno di loro, ammirarli, valorizzarli e amarli.

Come ha lavorato sull’esistenza del figlio Walker e dell’infanzia?
Ho provato a stare più lontana possibile dal bambino, è un innocente, un puro. In un mondo perfetto un bambino non è un giocattolo, né un’estensione dell’ego genitoriale, non è un’acquisizione, né una merce. È un’anima limpida e priva di colpe che merita la massima protezione, cura, gentilezza insieme a un luogo confortevole per abituarsi al mondo nel migliore dei modi. Il figlio è della madre, ma non è di sua proprietà, vive nella cura dei genitori, una responsabilità e un onore. Certo è un’idea difficile da abitare e introiettare. Spesso le persone sembrano preferire che i propri figli siano trofei, estensioni, distintivi: tipici scherzi dell’ego.