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Mangialaglio, Pretino, Lapis, Girardengo, Tapioca, Acciuga sono soprannomi di alabastrai, lavoratori della pietra d’alabastro,quella roccia bianca traslucida. Ne sono stati raccolti più di un migliaio di nomi d’uso al posto di quelli veri, a Volterra, in questa zona della Toscana dall’anima popolare e combattiva. Oggi il più famoso alabastraio della cittadina d’origine etrusca è Aulo Grandoli, 84 anni, una lunga carriera ricca di soddisfazioni e di realizzazioni, uno spirito libero e critico, ma tutti lo conoscono come il Pupo . E la sua vita raccontata per filo e per segno, tra fede comunista e coscienza operaia, spirito artistico e esibizioni teatrali, è il contenuto di Io, il Pupo, libro di Luca Caioli, scrittore e biografo tradotto in decine di lingue, per le edizioni Distillerie. Un dialogo a due voci che va dall’anteguerra ai giorni nostri, una grande rievocazione dei quartieri Borghi, tra lo Sgherro e le Balze, di una Volterra profondamente amata e vissuta, seguendo la storia di un mestiere che sta scomparendo e le tante giravolte di una comunità locale.

«Dal mio punto di vista è il materiale più bello del mondo – confessa Il Pupo – perché dal lato didattico non c’è materiale migliore. Se uno deve abituarsi a lavorà con le mani e col cervello l’alabastro si presta al massimo perché vedi subito il risultato del tuo lavoro e quello che realizzi ci rimane. Non è corrosivo, non dà problemi di salute. Si lavora con facilità, con qualsiasi mezzo, ed esteticamente è valido». Forse, per questi e altri motivi, dagli Etruschi in poi, questa roccia a struttura fibrosa venne usata come pietra da decorazione e per piccoli oggetti ornamentali. L’attività economica cominciò tra fine Settecento e inizio Ottocento. Si copiavano figure greche e romane, si facevano vasi e orologi,e da allora in poi l’alabastro -quello di Volterra è gessoso, più tenero e meno pregiato di quello orientale- ha girato il pianeta.

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Già Carlo Cassola aveva descritto il fiero antifascismo degli alabastrai e narrato la radicata tradizione di personaggi legati all’anarchia e al comunismo (da Zaffa all’anagrafe Guelfo Guelfi a Piero Bulleri detto Bomboniera), forse c’entra lo stare insieme tutta la giornata discutendo e ragionando in bottega, dove fioriscono la passione politica, l’amore per la lirica, le curiosità intellettuali. «La bottega era anche una scuola di vita perché, normalmente, il principale ti diceva come ti dovevi comportà, insomma faceva anche un po’ da babbo – confessa il Pupo – Dopo la guerra, andai a bottega da un vecchio alabastraio, Libertario Mezzetti e tutti lo conoscevano col soprannome di Piedi. In bottega si lavorava in tre o quattro insieme, e al banco c’era sempre la possibilità di parlà l’uno con l’altro».

Se i fascisti arrivavano in branco a bastonare, quelli dei Borghi poi reagivano e andavano a picchiarsi con loro,in piazza. «Durante la guerra, casa mia era un punto di ritrovo. Quando gli americani facevano i lanci, le staffette partigiane portavano la roba e le armi da noi. E anche la stoffa dei paracadute che poi si distribuiva alle famiglie. La Resistenza? Era la speranza di un mondo migliore. In casa mia si è sempre pensato così».

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Di alzate d’ingegno il Pupo ne ha fatte centinaia, andando a lavorare a Parigi e a Cantù (in grandi mobilifici che avevano bisogno della manualità di un modellista per le decorazioni), mettendo su poi una bottega propria. «La prima 500 la comprai con un gruppo di cavalli fatto in una settimana»; erano tempi favolosi, quelli del boom economico, presto finiti per l’eccesso di offerta di gingilli sbozzati. Così l’epica contadina, l’amore per la natura, la diffusa convivialità, erano caratteristiche comuni della popolazione di questa cittadina con la memoria libertaria nella pietra, come la lapide (di bronzo) a Porta Fiorentina che ricorda le arringhe di Pietro Gori nel tribunale di Volterra per difendere i compagni operai, a inizio ‘900. Il Pupo ha partecipato ad alcuni spettacoli di Virgilio Sieni compreso L’art du gest dan la Mediterranée, rappresentato un paio d’anni fa a Marsiglia, dove interpretava se stesso, un artigiano che col suo lavoro parlava di gesto, di danza, del corpo. «Avevo portato una serie di pezzi piccoli che aveva scelto il coreografo e poi dei pezzi incominciati che lavoravo a mano. Usavo la raspa, lo scalpello e la scuffia».

Il volume è stato stampato dal Collettivo Distillerie, un’associazione culturale cittadina, che lavora a un progetto ampio di conservazione, salvaguardia e valorizzazione del mondo degli alabastrai volterrani e ha voluto far conoscere i volti e le storie dell’impegno anticlericale e antifascista degli artigiani cittadini. Hanno dato alle stampe qualche mese fa il volume Sovversivi. I lavoratori dell’alabastro nel Casellario Politico Centrale (un lavoro di Duccio Benvenuti, Pietro Masiello e Bruno Signorini) che raccoglie le foto segnaletiche e le carte di polizia, dall’’ottocento al 1945, relative agli artigiani della pietra bianca, che promuovono azioni antimilitariste , prima della guerra mondiale, e diffondono manifesti anarchici. Su questi antichi artieri è stato anche costruito lo spettacolo teatrale Alabastrai di Gianni Calastri. E un documentario in dvd con lo stesso titolo. Anche lì in primo piano una stanza di lavoro, coperta dalla polvere bianca dell’alabastro, che si smaltisce bene con un buon bicchiere di vino rosso, altro conforto necessario della bottega volterrana.