La fine è nota come per tutte le fiabe, le varianti sono molteplici alla ricerca dell’incanto che intorno a quell’unico racconto con le sue figure «obbligate» di principi, principesse, streghe, fate e sortilegi, si può ancora trovare. Ma è la materia delle favole, archetipo ancestrale di un tempo fuori dal tempo, la trama su cui proiettare, ogni volta, qualcosa che ci riguarda.

E a questo  sembra tendere anche La Bella e la Bestia della Disney nella versione live action con la regia di Bill Condon in cui la novità rispetto al meraviglioso cartoon del 1991 non sono solo gli attori in «carne e ossa» (e Céline Dion che per Beauty and the Beast ha lasciato il posto a Ariana Grande e John Legend) ma soprattutto i riflessi che dal nostro presente vi si allungano sopra.

C’è una fanciulla, Belle (Emma Watson) che nonostante all’inizio appaia «gatta morta» come quasi tutte le eroine fiabesche in realtà è una che non pensa al principe azzurro, al matrimonio o simili. Anzi respinge il prepotente corteggiamento di Gaston (Luke Evans) il capitano che seduce tutte le donne e pure gli uomini del villaggio e che invece vuole solo lei – proprio perché non può averla. Belle ama i libri, Shakespeare, tutto ciò che la porta lontano dalla comunità congelata dove vive col padre (Kevin Kline) amatissimo, un artista che l’ha portata lì quando era piccola da Parigi alla morte della mamma (le madri nelle fiabe muoiono sempre). Poi da qualche parte, in un tempo «congelato» anch’esso c’è un principe bellissimo trasformato in Bestia da una fata per punirlo della sua arroganza. La sua vita è appesa a un petalo di rosa, per salvarsi deve trovare qualcuno che lo ami.

Rispeto a altre la favola originaria – francese, ma si parla anche di riferimenti alle Metamorfosi di Ovidio – crea un personaggio femminile diverso, che non aspetta di essere «svegliato» dal cavaliere di turno e anzi è lei a liberare il principe accettando la sua diversità. Nel film regista e sceneggiatori, Evan Spiliotopoulos e Stephen Chobsky, hanno trasformato l’eccentricità in una specie di manuale del polically correct: come fare la fiaba progressista.

Perciò muri, sirene populiste – i villici guidati dall’orrendo Gaston che danno la caccia alla Bestia ma sono loro «bestiali» … – come quelle dell’America di Trump, la difesa della cultura e del pensiero contro l’oscurantismo bullo, la presenza african-american e pure la quota di gender con Le Tont (Josh Gad) che prima innamorato di Gaston scoprirà gli ammiccamenti di un alto soldato felice di essere stato avvolto in vestiti di raso e rossetto sgargiante. Le reazioni abnormi degli integralisti tra Alabama, Russia e Malesia – dove la Disney lo ha ritirato – dimostrano che è una scelta efficace. E però in questa programmaticità fatta di pieni (come le giornate dei bimbi oggi) non c’è nemmeno un piccolo spazio bianco per immaginare. Tutto è lì, spiegato e conseguente. Ma la fiaba e il suo potere sono molto altro.