Una guerra fatta di rapide salite e veloci discese, di scontri che non avevano nulla di campale ma, semmai, di apicale, nel senso di stare non al vertice di una piramide ma sulla scomoda sommità di un cocuzzolo, nel mentre dal basso ritornava l’immagine vertiginosa di qualcosa di molto lontano ma anche, in fondo, di vicinissimo, ossia i territori per i quali si combatteva e si «cadeva».

Una guerra bianca, come la panna, fatta di neve, tanta neve, come dalle innumerevoli lastre di ghiaccio, ma in realtà resa rossa dal sangue dei combattenti. Non di meno, un conflitto dove i militari si incrociano e si confondono con i civili, dove le «culture belliche» (in tutte le loro espressioni, dalle tecniche elaborate dagli stati maggiori fino alle credenze diffuse tra la truppa) si incontrano con il ricco substrato di saperi elaborati dalle popolazioni locali ma dove la montagna si staglia sempre all’orizzonte in piena autonomia. Comunque sia, un’impressionante figura, ovvero una sorta di inquietante sanzione come, a volte, anche una rassicurante presenza, poiché ineludibile e definitiva nel rapporto tra uomo e natura.

Uno spazio colonizzato

Il Primo conflitto mondiale fu una guerra sublime, al netto di qualsiasi estetizzazione, per il variegato fronte italiano-austro-tedesco: magnificenza dei panorami e orrore generato dallo strazio delle carni; sforzo tecnologico e spasimo dei muscoli di centinaia di migliaia di fanti e di animali; soprattutto, terra, fango, freddo, ghiaccio, roccia e acciaio. Il tutto fuso in un insieme esclusivo, in una sorta di capovolgimento dell’ordine naturale delle cose, laddove lo spazio alpino viene occupato, colonizzato, trasformato, in parte devastato, reso artificiale in molti suoi aspetti, quindi scomposto e poi ricomposto dall’azione degli esseri umani. A cose finite, nel tardo autunno del 1918, nulla di quello che un tempo era stato, laddove si era combattuta una guerra di cime e altopiani, sarebbe rimasto come prima. A testimonianza di ciò, l’infinita quantità di «reperti» che ancora oggi le nevi perenni, in via di costante contrazione, ci restituiscono.

Dal Golfo di Venezia, salendo su per le pendici delle Alpi e della Prealpi italiane orientali, passando per la Carnia, il Cadore, proseguendo verso l’Adamello e poi oltre ancora, il fronte era un saliscendi continuo. Si innervava, come un ricco sistema arterioso, in complessi e plurisecolari ecosistemi, dove la presenza umana non era stata per nulla casuale o contingente ma legata a dinamiche stratificate, complesse, articolate. Il conflitto mondiale precipita, letteralmente, su questo tessuto sociale, antropico e naturale. Lo impasta del suo, con i suoi strumenti, le sue tecnologie, i suoi saperi ma anche e soprattutto le sue urgenze, il suo bieco e mortifero fervore, un’alacrità che dipinge d’urgenza, di movimento, di continuo cambiamento lo stallo apparentemente interminabile, al quale segue poi il cedimento repentino, proprio o altrui. Non a caso la disfatta di Caporetto, nel 1917, aveva creato il panico, segnando il passaggio dalla guerra sui monti allo spettro dell’invasione della pianura.

Il prima e il dopo

Diego Leoni, insegnante, studioso, ricercatore, uomo di pianure, di alture e di montagne con il suo libro dedicato a La guerra verticale. Uomini, animali e macchine sul fronte di montagna, 1915-1918 (Einaudi, pp. 552, euro 36) ci rende magnificamente il quadro della incredibile complessità di una guerra tanto immobile quanto spericolata, tanto arcaica quanto tecnologizzata. Soprattutto, ed è solo uno dei diversi pregi di un testo di storia che si legge come il romanzo di un’epoca, stabilisce dei nessi di continuità tra il prima e il dopo. La guerra che «sta su» non è la somma dei soli combattimenti e dei loro infiniti cascami sulla popolazione civile, quasi che pezzi dei combattenti stessi cadessero letteralmente sulle teste di chi «stava sotto», ma un tratto importante di un percorso che ha dei precedenti e delle conseguenze.

I precedenti sono i miti della montagna ma anche la rincorsa generata dalle sfide alpinistiche, nel conquistare le vette candide e al medesimo tempo diaboliche. È una cultura alpinistica di taglio positivista, che si misura con il principio, fortemente competitivo, che nulla sia inesplorabile, e quindi irraggiungibile, per l’uomo di talento e di coraggio. Raggiungere una cima era «prenderne possesso», antropomorfizzarla, renderla terreno conosciuto e, quindi, non più ostile. Questa disposizione d’animo si confronta con la persistenza di saperi all’apparenza immobili, quelli di chi la montagna la conosce perché la vive, la usa, sopravvivendo grazie ad essa. Le conseguenze sono quelle che derivano dalla riformulazione di un immaginario che adesso, dopo il 1918, deve confrontarsi con la commistione tra modernità e primordialità.

Le montagne, ed il rapporto con esse, esce infatti trasformato da quattro anni di combattimenti. Sono state ripetutamente affrontate, attraversate, abitate, spesso perforate, comunque scavate, frequentemente bombardate. Per lungo tempo vi hanno vissuto interi raggruppamenti umani. Non vengono restituite alla loro originaria funzione, quando nella percezione di molti dei nostri connazionali costituivano ancora la naturale linea di divisione che avrebbe protetto da «invasioni» straniere. Sono adesso un tessuto poroso. Leoni, che da decenni lavora su questi temi, avendo partecipato anche alla costituzione dell’Archivio della scrittura popolare di Trento, dà corpo ad una spessa trama di elementi, un intreccio composito dove una pluralità incredibile di fonti viene continuamente intersecata, dai resoconti ufficiali delle unità di combattimento alla memorie personali dei singoli combattenti, dai repertori letterari alle risultanze delle indagini sul campo.

Ne risulta un volume solidissimo, non solo di agevole lettura, malgrado le corpose dimensioni, ma costellato di vivaci intuizioni. Un apparato a sé di note costituisce, di fatto, un secondo testo, con un suo scorrimento parallelo. La montagna ne rimane la protagonista indiscussa. Non di meno, la guerra in montagna, che è anche dato tecnico, perizia e competenza, si confronta con la fisicità dell’esperienza quotidiana di chi, cent’anni fa, si trovò a trasporre il lavoro nei campi, assai più raramente in una fabbrica, nel mestiere delle armi.

La materia della guerra

Un ritratto corale, quindi, quello che ci consegna, dove la divisione tra eserciti contrapposti è superata dalla condivisione di situazioni comuni. Ne rimane l’umano che resiste, nelle pieghe degli anfratti naturali, nel sibilo del vento, nel freddo aurorale. Non è facile letteratura, si tratta semmai di dura esistenza, dove il rapporto con la roccia e l’altitudine diventa la metafora di una condizione che va ben oltre quella dell’esperienza del combattente, per assurgere ad una sorta di condizione universale, quella della distanza e della vicinanza, del superiore e dell’inferiore, della gerarchia naturale e di quelle sociali. Di ciò Leoni ci restituisce solide immagini. E ci rende la «materialità» dell’evento bellico, allora ed oggi.