Quando la politica e la società sono investite da una crisi economica, lunga e profonda come quella iniziata nel 2007, i temi fondamentali del legame sociale contemporaneo sono messi in discussione. Il caso più evidente è quello dello stato sociale. Costruito dall’Inghilterra tra il 1942-45 in piena seconda guerra mondiale sulla base del Piano di protezione sociale elaborato da William Beveridge, è stato progettato a partire da un sistema previdenziale unificato e obbligatorio per tutti i cittadini, capace di coprire i periodi d’interruzione o perdita della capacità di guadagno; un sistema coerente e articolato di servizi sanitari, gratuito e aperto a tutti, pensati anche per prevenire le malattie. Al centro del progetto, c’era la piena occupazione, un requisito indispensabile per la sua sostenibilità e per favorire lo sviluppo di una «libertà dal bisogno».

Le ricette neoclassiche

Con la crisi, ci sono contrazione del Pil, riduzione degli occupati – e conseguente crescita della disoccupazione -, polarizzazione del reddito (una delle cause della diffusione della povertà): fattori che hanno eroso il senso comune di un acquisito benessere. È soprattutto nei Paesi industrializzati che questi fenomeni sono diventati manifesti. Ma è ben prima della crisi che la politica europea e italiana in particolare hanno pianificato politiche sociali e economiche in base a una logica opposta a quella emersa dopo la seconda guerra mondiale, nonostante le ricette neoclassiche non abbiano fornito prova di grande lungimiranza. Inoltre, la crisi ha alimentato la convinzione di avere fin qui vissuto sopra le proprie capacità e/o risorse. Le prime forme di protezione sociale colpite sono state proprio quelle che segnalano la presenza di una società giusta o ingiusta: la previdenza e la sanità.
Gian Paolo Patta, già segretario nazionale della Cgil, sottosegretario alla sanità con il secondo governo Prodi, padre del testo unico su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e rappresentante della Cgil nel Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’Inps, indaga, nel volume Primo riformare le pensioni (Ediesse pp. 128, euro 13), il sistema previdenziale, sottolineando come gli interventi adottati dal governo Monti e dall’allora Ministra Fornero hanno trasformato la previdenza nel bancomat di quasi tutti i governi venuti dopo. Oltre a questo, sono interventi classisti che non risolvono nessuno dei problemi strutturali che pretendevano di affrontare.

Le riforme delle pensioni nel 1992 (Amato), nel 1995 (Dini) e nel 2011 (Monti-Fornero) hanno inoltre utilizzato il cosìddetto conflitto generazionale per giustificare le misure adottate in base alla retorica che «i giovani pagano le pensioni degli anziani». In realtà, gli interventi hanno inciso negativamente sulla situazione dei lavoratori prossimi alla pensione, ma ancor di più hanno modificato le prospettive previdenziali delle generazioni più giovani. Con l’assunto che lo stato sociale è un lusso in tempi di crisi, la politica ha perso di vista uno dei suoi compiti principali: garantire le condizioni di vita della popolazione, a partire dalla piena occupazione. Se il Pil non cresce, tutta la spesa (privata e pubblica) diventa insostenibile. Inoltre, se il Pil diminuisce come in Italia – ormai è prossimo a quello del 2000 -, il rapporto tra spesa sociale (previdenziale in particolare) e prodotto interno lordo tende ad alzarsi. Il problema non è la spesa sociale, piuttosto il denominatore che anno dopo anno non cresce.

Le iperboliche denunce di spesa previdenziale fuori controllo, ormai saldamente al di sopra del 16% del Pil, nascondono qualcosa che in troppi si ostinano a non vedere. Se depuriamo la previdenza dall’imposta Ire e dal Tfr, quest’ultimo istituto non fa parte dello stato sociale – è denaro dei lavoratori -, il rapporto previdenza/Pil scende al di sotto del 13%. In altri termini, l’Inps (bancomat) trasferisce ogni anno allo stato qualcosa come 50 mld di euro. A questo proposito suggerisco un’altra preziosa lettura: Rapporto sullo Stato Sociale 2015, curato da Felice Roberto Pizzuti (pp. 393-452).

Cambiamenti strutturali

Gian Paolo Patta analizza la spesa previdenziale anche da un punto di vista poco indagato. L’Inps con il passare degli anni è diventato un istituto gigantesco con un bilancio unico. All’interno del bilancio troviamo fondi in attivo (quelli dei lavoratori dipendenti e della gestione prestazioni temporanee), e fondi in progressiva perdita (elettrici, trasporti e le tre gestioni dei lavoratori autonomi – artigiani, commercianti e coltivatori diretti, coloni e mezzadri). In altri termini, il flusso di contributi dei lavoratori dipendenti e dei parasubordinati finanziano le pensioni di chi versa meno contributi. Un punto sempre trascurato, salvo che per l’adeguamento dell’aliquota dei lavoratori parasubordinati. Infatti, la gran parte dei lavoratori autonomi paga un’aliquota contributiva del 22% sulla base di un reddito figurativo, stabilito dal Ministero del Lavoro, di 15 mila euro, contro un’aliquota del 33% dei lavoratori dipendenti e con reddito «imponibile» decisamente più alto di quello autonomo.

Primo riformare le pensioni, non rinuncia a formulare ipotesi di riforma strutturale del sistema previdenziale, introducendo degli elementi che richiedono una maggiore attenzione e approfondimento. La prima e non banale proposta è di separare assistenza, previdenza e mercato del lavoro. Non si tratta solo di cosmesi contabile: la separazione di previdenza, assistenza e mercato del lavoro avrebbe il vantaggio di integrare l’assistenza con l’attività di Comuni, Regioni e del sistema sanitario, mettendo al centro la persona che riceve queste prestazioni, in relazione alla specifica situazione reddituale e di prestazione; un’autonoma gestione delle politiche del mercato del lavoro permetterebbe anche la necessaria integrazione tra politiche attive e politiche passive con preziose sinergie tra Stato e Regioni, consentendo di utilizzare tutti i fondi che i lavoratori versano a questo fine per sostenere quelli che restano disoccupati per lunghi periodi (i disoccupati attualmente in Italia non hanno nessun sostegno).

Per quanto riguarda la previdenza, è evidente che la solidarietà deve avere un presupposto: i contributi devono essere uguali per tutti i lavoratori. Inoltre, Gian Paolo Patta, immagina i fondi previdenziali gestiti dai lavoratori che eleggono i propri rappresentanti periodicamente, e la stessa cosa dovrebbe accadere per i lavoratori autonomi. La finalità suggerita è quella di garantire la sostenibilità del fondo stesso, mentre allo stato spetterebbe il compito di vigilare.