«Il Carnevale non è, in verità, una festa che viene concessa al popolo, ma una festa che il popolo si concede» diceva Wolfgang Goethe nel Gran Tour. E aggiungeva a proposito del carnevale romano, che era «impossibile in realtà descrivere una festa del genere». Già, il problema è proprio questo. Come si fa a ragionare intorno a una festa che fa (o vorrebbe fare) dell’irragionevolezza la sua cifra comportamentale? Come si può riprendere una discussione intorno allo sberleffo, alla spontanea gioia di vivere? Forse il segreto è tutto nell’unificazione tra cultura «alta» e «bassa», un’antica ma democratica ed egualitaria questione.
Nel precedente articolo su Alias (la settimana scorsa) abbiamo registrato a Putignano, dentro un grande successo di una delle feste popolari più accattivanti d’Italia, la preoccupazione dei maestri cartapestai nel codificare in regole eccessive una festa che della sregolatezza (e quindi dell’inventiva massima) fa la sua cifra stilistica. Oggi ne attraversiamo il territorio più delicato, quello della discussione teorica sulla medesima festa. A Putignano, uno dei rari posti in cui si svolgono convegni internazionali di studio sulla maschera, sono convinti che sia molto utile ritornare a parlare del travestimento, del bisogno, quanto mai attuale nella nostra epoca, di uscire dai cliché che la (oppressiva) vita quotidiana ripropone. Giunti alla quarta edizione, gli incontri (biennali), hanno attraversato finora i territori del rapporto tra maschera e Mediterraneo, tra maschera e corpo, tra maschera e potere, per approdare quest’anno al rapporto tra maschera e linguaggi. Racconta Pietro Sisto che è l’animatore insieme a Piero Totaro (entrambi docenti all’università di Bari) di questi convegni: «Abbiamo accentuato ancora di più il ruolo internazionale degli incontri. Il carnevale di Putignano può a ben diritto aspirare ad essere, anche come bene immateriale, punto di riferimento per l’intero Mediterraneo e non solo».
Va subito detto che, in questo convegno, anche come spia del vuoto che viviamo oggi, sono le perlustrazioni antropologiche classiche del passato e i loro lasciti a segnare la via del futuro. Per questo se il Michail Bachtin del testo su Rabelais, che aveva messo il dito nella piaga del rapporto tra linguaggio permesso e linguaggio proibito in un corposo studio di interazione tra letteratura (questione «alta») e sociale (questione «bassa»), fa da sfondo all’intervento di Douglas Olson dell’università del Minnesota (Usa) sulla commedia di Aristofane Acarnesi, è Il ramo d’oro di James Frazer a ispirare la linea di Giovanni Kezich del Museo delle tradizioni trentine. Ed è sempre un antropologo ormai classico come Luigi Lombardi Satriani a segnare il punto: «La maschera è il linguaggio della libertà di fingere e di tante altre cose. Una nostra esigenza profonda. È il linguaggio dei segni indispensabili per vivere. Non vi sembri strano se cito Lenin, quello che parlava della capacità del sogno di progettare il futuro». Il sasso è lanciato e il convegno si inoltra con Vincenzo Spera, nel nome di un altro classico come Levi-Strauss, nel demoniaco delle maschere lucane di Aliano e Tricarico mettendone in luce gli opposti linguaggi dell’originalità terrificante nelle prime (persino repressa in anni lontani dalle forze dell’ordine) e dell’accettazione spettacolare che rassicuri nelle seconde. Le manifestazioni rumene, dove l’impostazione prevalente è il linguaggio parodistico in moltissimi paesi, sono affrontate da Vilmos Kesreg mentre il linguaggio della festa che si tramuta in dolore è analizzato da Matteo Palumbo che non poteva mancare di citare il Fellini de I vitelloni con la struggente maschera di Alberto Sordi. E se Paola Ingrosso affronta il riso e la malattia nella sofferenza umana e nel rapporto tra antico e moderno, è Piero Totaro a ritornare nella cultura classica greca dell’Aristofane anti Euripide delle Donne alle Tesmoforie. Ma tocca a Pietro Sisto scendere in «basso», si fa per dire, sul linguaggio delle corna e dei cornuti, in senso letterale (cioè animale) e metaforico (a Putignano agisce nel carnevale una acclamata «Accademia delle corna» composta da 40 simpatici elementi). Con gli spagnoli Oscar J. Gonzalez e José Luis Alonso-Ponga si entra nel vivo del linguaggio carnevalesco iberico con un viaggio che attraversa tutta la Spagna. Ma è il marocchino Lahoucine Bouyaakoubi a entusiasmare la platea col suo iter nel carnevale del Nord Africa, certo usato per motivi turistici soprattutto nella zona di Agadir, ma ricco di espressioni trasgressive (il carnevale è diventato anche uno spazio per la contestazione berbera in Marocco) e fortemente allusivo alla sessualità. Marxiano Melotti ha concluso con una dissertazione molto applaudita e a tratti esilarante sul linguaggio carnevalesco in rapporto alla politica oggi in Italia. Una relazione dal titolo più che eloquente: «Il paese dei gufi. Maschere linguistiche e comunicazione politica». Si dovrebbero poi ricordare altri interessanti interventi tra cui il progetto presentato dal Museo delle tradizioni trentine sull’indagine investigativa cinematografica (già a buon punto) in moltissimi carnevali di tredici nazioni europee. Una cosa su cui occorrerà ritornare.