È indubbio che attorno al Carnevale di Putignano, uno dei grandi appuntamenti italiani del genere, si sviluppa un’aspettativa che va ben oltre il divertimento di una stagione invernale. In realtà, come vedremo anche la prossima settimana, i riti e i miti del Carnevale (travestimento, eccesso, gioia) in questa cittadina della Valle d’Itria abbracciano sogni e speranze ben più grandi per il futuro. E si capisce perché in questo periodo di passaggio storico: pesa il vuoto di senso che ci attanaglia, preoccupa la disoccupazione e precarietà lavorativa generale, angoscia l’incapacità di inventare una politica nuova che parta dalle persone. A Putignano il Carnevale riempie di entusiasmo tantissime persone, di voglia di divertirsi ma anche di capire e discutere in profondità, di progettare. Non tutto segue la strada di una politica culturale adeguata alla svolta che occorre ma tanti ci provano. E sono almeno due i punti cardine di questa tradizione che possono rappresentare la metafora e il salto di qualità di Putignano e dell’intera Valle. A partire dalla base di questa festa, cioè i giganteschi carri allegorici che sfilano per la città, vanto di una tradizione di cartapestai apprezzati ovunque per precisione lavorativa e che deve essere la base di un rilancio dell’artigianato di qualità. Per proseguire con i convegni internazionali di studio e di scavo teorico nella filosofia di vita della «maschera», del bisogno che ognuno di noi ha di difendersi da una vita spesso dolorosa e alienata. Due punti che insieme dovrebbero partorirne un terzo: quello della creazione di un grande museo legato a tutto il ciclo carnevalesco e proprio a partire dall’arte dei carri.
Oggi ce n’è uno in biblioteca, molto ricco di documenti e foto ma non sufficiente al salto di qualità generale complessivo che occorrerebbe. I sette grandi carri che sfilano ogni anno sono costruiti in circa quattro mesi di intenso lavoro da altrettanti gruppi, ognuno dei quali è formato da dieci elementi guidati da un maestro. Uno di loro (il più bravo, dicono in tanti, e non solo perché il suo gruppo vince spesso la gara, compresa quest’ultima) è Deni Bianco, 40 anni, che quest’anno ha prodotto il carro di 16 metri dedicato allo sfruttamento e all’inquinamento dell’Ilva di Taranto, dal titolo semplice: «The Show must go on». Incontro Deni nel grande capannone del carro nei giorni di riposo dalle sfilate e la prima domanda è d’obbligo: hai disegnato un grande domatore avaro di profitti che non distingue più cosa è un uomo mentre continua a sfruttare le maestranze nelle sembianze di un elefante e a inquinare i quartieri a ridosso della fabbrica. Cosa ti ha spinto verso il soggetto Ilva? «Volevo interpretare da tanto tempo la tragedia di Taranto, inizia l’artista – , quel doppio ricatto sul lavoro e sulla salute l’ho sempre vissuto come cosa gravissima. Taranto è una città stretta nella morsa del vivere e morire per la stessa causa, una città in cui ci si sente assediati da fabbriche che producono morte ma anche ineluttabilmente lavoro. I cittadini sono stati per anni strumenti passivi e merce di scambio di un sistema capitalistico e politico avido e corrotto che li ha piegati al ricatto meschino: salute o lavoro. Eppure qualcosa si è mosso con le denunce della magistratura e le lotte di un popolo che non vuole più essere complice. Son venuti molti operai a vedere la loro rappresentazione e forse porteremo il Carro a Taranto il 1° maggio». È un lavoro duro quello del cartapestaio? Ci si può vivere? «Sì alla prima domanda – riprende Deni – è un lavoro duro che puoi fare solo se sei preso da grande passione. E, ovviamente, da grande amore per il luogo dove vivi. Ho sempre sofferto come una grande ingiustizia l’obbligo di allontanarsi dalla propria terra per vivere. Vedi, per me, è una sfida: il piacere di costruire ogni anno delle cose originali che poi vanno ad allietare migliaia di persone nelle strade principali del tuo paese. La colla, i giornali, la pittura: sono cose che mi porto dentro da ragazzino. È faticoso certamente, ma bellissimo. Alla seconda domanda rispondo no, non ci si può vivere. Riceviamo 31mila euro a gruppo, una cifra assolutamente irrisoria per viverci. Allargo quindi il mio orizzonte alle scenografie teatrali e cinematografiche, alle installazioni artistiche».
So che non siete d’accordo con la Fondazione che organizza per tema il Carnevale ogni anno. «Infatti – riprende Deni – non siamo d’accordo, noi cartapestai, con l’imposizione di un tema ogni anno. Così diventa uno spettacolo teatrale programmato, mentre il Carnevale deve obbedire alla sua logica che è quella dello sberleffo e dell’invenzione spontanea. Il tema libero è poi fondamentale per artisti come noi che si esprimono davvero meglio al di fuori di canoni che, ripeto, dovrebbero essere di altre espressioni spettacolari non del Carnevale».
Ricordo al nostro artista che a Putignano colpisce la discrepanza tra una grande energia messa in moto e i lasciti materiali su cui costruire il futuro. C’ è il museo in biblioteca, molto interessante, ma i carri, ad esempio, vengono alla meglio svenduti perdendo anche l’origine della loro produzione. Non sarebbe l’ora di puntare a un grande museo di questa memoria carnevalesca del territorio?