Appeso in alto, al centro del sipario chiuso, un ritratto di giovane uomo accoglie il pubblico. Zigomi alti, occhi scuri, è Vaslav Nijinskij, anima struggente e rivoluzionaria dei Ballets Russes di Sergej Diaghilev.
Il sipario si apre: una risata, un uomo dal volto bianco di biacca, trattenuto da una camicia di forza. Una maschera espressiva, in un ritaglio di luce. È Mikhail Baryshnikov, danzatore, attore di teatro e di cinema, sperimentatore indefesso, 67 anni, una qualità di movimento sorprendente nella calibratura tra la forma del linguaggio del corpo e l’espressione di ciò che di più intimo scegliamo di rivelare agli altri.
Siamo al teatro dell’Arte per la stagione del CRT, lo spettacolo è Letter to a Man, regia di Bob Wilson, maestro di un teatro visionario in cui la danza è già stata oggetto di feconde collaborazioni, basti citare il pezzo culto Einstein on the Beach del 1976 con Lucinda Childs. Qui Wilson è alla sua seconda collaborazione con Baryshnikov dopo The Old Woman.

Letter to a Man è a Milano dopo il debutto quest’estate al festival di Spoleto. Nijinskij fu l’artista che nei primi decenni del Novecento fece capire al mondo il potenziale magnetico della danza maschile, fu il coreografo che osò raccontare nel 1912 il desiderio sessuale di un fauno disteso sulla sciarpa di una ninfa e che nel 1913 firmò la prima, contestata, innovativa coreografia de Le Sacre du printemps di Stravinskij con salti ostinati sul posto, battuti a piedi paralleli, e un’eletta immobilizzata dalla paura del destino.

Una bellezza seducente, un artista che ha lasciato ai posteri i suoi diari, scritti febbrilmente in sei mesi, nel 1919, quando la pazzia iniziava a minargli la mente. E sono proprio i Diari, testo lancinante nella sua lucida follia, ad avere ispirato Wilson e Baryshnikov, che hanno costruito intorno a stralci degli scritti del danzatore più famoso e tormentato di inizio Novecento uno spettacolo non citazionistico (non ci sono rivisitazioni di pezzi celebri danzati da Nijinskij nella sua carriera), che piuttosto affonda lo sguardo sulla psiche dell’artista e le sue modalità espressive.

Il testo (i Diari integrali sono pubblicati in Italia da Adelphi) è una sorta di flusso di coscienza, pensieri che tornano più volte, espressi in frasi brevi, in periodi fiume, intervallati da pochissimi a capo. Lo spettacolo di Wilson e Baryshnikov ritrae Nijinskij nel 1945, a Budapest, cinque anni prima di morire, città dove l’artista si era rifugiato con la moglie alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La morte, il rapporto con Dio, il giudizio feroce su Diaghilev, di cui era stato amante giovanissimo, e che mai perdonò il matrimonio del danzatore con Romola de Pulszky, il sesso, l’amore per il lavoro, il rispetto per la danza e per la scena, il sentimento sulla guerra nutrono lo spettacolo attraverso le parole stralciate dai Diari che, recitate in russo e in inglese, amplificano nel pubblico con la reiterazione delle frasi la percezione delle ossessioni dell’artista.

Il mago Baryshnikov, solo in scena, si trasforma così in uno stupefacente fantoccio, perso nelle maglie delle parole di Nijinskij. Eccolo in un rettangolo di luce bianca, mentre la voce dice e ridice: «I’m not Christ, I’m Nijinskij», eccolo danzare in frac e papillon, sedersi nella notte a guardare il cielo (seducenti quadri blu di Wilson), ancora danzare con alle spalle un cerchio rosso fuoco. La sua è una danza minima, fatta di pose repentine, immobilizzate in figure marcate dai mutamenti del viso/maschera da clown, sollecitate dalle parole. «I like lunatics, mi piacciono i pazzi, perché so come parlare loro», «so cos’è la guerra, perché la faccio alla madre di mia moglie», «Diaghilev è una persona orribile».

La bellezza del lavoro è che il ritmo ripetitivo della voce coglie dei Diari la qualità battente della scrittura, che è forma e sostanza, e che si fonde con le passeggiate frettolose, con il volto che strizza l’occhio al pubblico, con l’attonita espressione di un uomo che guarda al proprio passato. Ambientando il lavoro nel 1945, è come se Baryshnikov/Wilson potessero servirsi dello scarto temporale tra la scrittura dei Diari (1919) e il presente della scena per raccontarci il grande divo al finire della vita, riuscendo, miracolosamente, a non perdere levità.
Domani, a Milano, ultima replica mentre per Baryshnikov si prepara un nuovo impegno solistico. Il 15 ottobre, al Nuovo Teatro di Riga, sua città natale, l’artista è protagonista di Brodsky/Baryshnikov, lettura e interpretazioni delle poesie del premio Nobel, Joseph Brodsky, scomparso nel 1996, al quale Baryshnikov è stato legato da un’amicizia più che ventennale.