Il Mistral, furioso vento della valle del Rodano, spazza da giorni le coste della Francia sud occidentale. Teso e freddo, piega in direzione sud-est i grandi platani che bordeggiano le strade, le assolate vigne della Provenza e le poche bandiere tricolore che i francesi hanno appeso ai loro balconi dopo l’attentato di Nizza.

Non è più tempo di étendards sanglants issati su automobili e finestre, come dopo le stragi di Charlie e del Bataclan: la bandiera nazionale è ormai il desueto simbolo di un paese che si mobilitava contro un’orda di traditori e re oggi incomprensibili, sconosciuti e senza volto.

Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’uomo che nella serata dei fuochi d’artificio celebrativa del 14 luglio, festa della Repubblica, ha abbattuto ottantaquattro persone, è uno di costoro, verso cui la Francia combatte la sua strana guerra. Chi era costui? Un adepto dell’Isis, un narcisista patologico pazzo che voleva diventare immortale grazie a un logo globale e ai social media che fomentano la società perennemente eccitata? I media in generale di lui hanno dato in queste due settimane un’immagine rassicurante: un cretino e un pessimo musulmano. Una gara nel raccontare particolari pruriginosi della sua vita smodata e fatta di nulla: qualcuno in cui les arabs non possono e non devono riconoscersi in alcun modo.

Chiacchere e silenzi da bar

Nei piccoli bar della Provenza fuori dal tempo dove ancora resiste intatto il mobilio di fòrmica degli anni Sessanta, la Francia della pétanque non ha molta voglia di parlare della impalpabile guerra che da molti mesi sta assediando il paese. Non c’è voglia di discutere di Mohamed e della sua testa, non c’è voglia di discutere degli arabi dei ghetti, non c’è voglia di discutere se la polizia sia stata efficiente, e men che meno si discute delle polemiche politiche che, viste da qua, fanno apparire l’Italia un paese né migliore né peggiore di tanti altri. La realtà, in questi bar dove si tracanna vino grigio e il mondo è scolpito dal Mistral, è molto semplice: noi bombardiamo loro, loro bombardano noi. C’est la guerre.

Mohamed, per quanto fosse un cretino e pessimo musulmano, era solo la testa di legno di un’armata ignota contro cui la Francia combatte. Ignota perché i francesi hanno una vaga idea di cosa faccia il loro esercito, nonché aviazione e Marina, in giro per il mondo. «Bombardiamo in Siria per rovesciare Assad, dicono. Poi forse in Libia e sicuramente in Africa, nel deserto. In Sudan è sicuro che ci siamo. La Francia combatte un sacco di guerre, è normale che si incazzino». Perché la Francia combatta queste guerre è un altro enigma agli occhi dei francesi. Nessuno sa spiegare precisamente le ragioni di questi conflitti.

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Liberté, egalité, fraternité viene ricordato a caratteri cubitali lungo le autostrade, motto rivoluzionario che ha preso il posto degli inviti ad andare piano e a non usare il telefono mentre si guida, perché tutti devono ricordare da dove si viene, anche se non si sa dove si sta andando. Una sorta di abracadabra che dovrebbe aprire le porte della concordia, in un paese che tanti vogliono trascinare a forza dentro una guerra civile interna.

Anche se, vista da qua, da pochi chilometri dalle chiazze di sangue di Nizza provocate da un tizio che si chiamava Mohamaed, la questione «migranti» non ha alcun interesse. E dove non c’è voglia di discutere di Mohamed e ancor meno delle varie guerre della Francia, nelle chiacchiere di strada, di fronte a un’insalata e prima di un partita a bocce, meglio parlare di Pogba e della sconfitta con il Portogallo, oppure dell’estate secca; e se proprio si vuole fare gli intellettuali si finisce sulla crisi economica perché in Francia tutti hanno un parente o un amico a spasso, senza lavoro, povero. La crisi economica è l’unico motivo per cui il presidente Hollande è considerato un incapace.

Così, sotto le scritte rivoluzionarie autostradali che hanno sostituito i drapeau, si allargano cantieri di ogni tipo e ci si domanda se, tra il grande sforzo pubblico che la République sta sostenendo per mantenere in piedi un’economia e le guerre incomprensibili che combatte agli occhi dei cittadini, vi sia una relazione.

La Francia, almeno quella del Sud, appare un immenso cantiere, per lo più sovradimensionato. Le stradicciole di montagna battute dai turisti nei tre mesi estivi vengono trasformate in vialoni immensi a colpi di dinamite e ruspe, ogni incrocio diviene una rotonda grandiosa con ulivi secolari, vigne, case in pietra, statue. E così le città: Nizza, Marsiglia, Montpellier, sono congestionate da lavori che bloccano i corsi maggiori. Riponete nel cruscotto il navigatore se avete intenzione di fare un giro nel Sud della Francia, perché ogni volta vedrete sul vostro schermo che state attraversando campi e montagne dove, almeno fino all’ultimo aggiornamento, strade non c’erano.

È la Repubblica che si muove con possenza, ma che per farlo deve rompere le dighe dei conti pubblici. E allora, forse, quelle guerre sono il prezzo che la Francia paga per non essere l’Italia, spostando così il conflitto dalla porta all’interno della casa. Eppure non basta, perché la crisi morde duro soprattutto nelle periferie mostruose, proprio come quella di Nizza, il punto più lontano dell’universo della promenade des Anglais. Periferie che forniscono la manodopera per le nuove fabbriche francesi e non solo: i centri storici delle città. Luoghi indifendibili.

Plotoni o pizzerie

La pochezza del dibattito politico francese si avvita intorno all’inutile dilemma dei controlli del 14 luglio a Nizza. Lavate le chiazze di sangue, appassiti i bouquet e caduti a terra i peluches, oggi, adesso, in questo momento, quel viale potrebbe essere nuovamente oggetto di una strage?. E come quel viale, tutti i centri storici sono diventati luoghi della produzione turistica di massa, gentrificati a suon di espulsioni di poveri – finiti tutti nelle oscene periferie, a Nizza come a Marsiglia – costellati di pizzerie, negozi e scarpe e cioccolaterie.

Il centro delle città di ogni città è diventato il cuore dell’economia che tenta, ancora una volta, di arginare la crisi post industriale in cui la Francia, come tutti gli altri, annaspa. Una Disneyland senza controllo all’ingresso, senza biglietto per entrare.

Luoghi affollati di turisti tutti uguali, che percorrono tutti le stesse vie, comprano le stesse cose – è il nuovo fordismo – in cui nessuna difesa è possibile. Non si possono posizionare nelle piazze le contraeree, come sui tetti delle fabbriche durante la seconda guerra mondiale. Non è possibile mettere un check point davanti alle mille pizzerie di una piazza qualsiasi, e non puoi mandare plotoni di soldati a fare la ronda: perché dove ci sono i mitra a spasso subentra un senso di precarietà e di paura che allontana il turista, i suoi euro, le sue pizze e i suoi «macarons».

Nizza, Marsiglia, Nimes, Molnpellier, Aix en Provence, Orange: sono tutte città indifendibili. Così l’amletico dubbio tra la sicurezza data dai mitra spianati e la spensieratezza di un luogo lontano dalla guerra si sceglie la seconda: perché genera molti più affari. Si scommette su un incerto calcolo statistico, secondo il quale devi avere una gran sfortuna per subire ancora un attacco. Infatti, nei giorni successivi la strage di Nizza il porto vecchio di Marsiglia, forse uno dei luoghi più turistici del globo, non mostrava particolari segnali di controllo poliziesco. Così come gli altri grandi centri della costa Azzurra, Nizza compresa.

Violetta e il peso delle scelte

È la consegna principale di questa strana guerra francese: la consegna del sorriso. Altro non si può fare, perché la mega macchina si bloccherebbe e probabilmente quelle «banlieux» coverebbero ancora più disoccupati, ancora più risentimento, ancora più collera.

Fedeli alla consegna principale della loro guerra, i francesi ripuliscono le tracce del bombardamento di due settimane fa e tornano a correre sui pattini dove i corpi erano stesi. «Cosa possiamo fare di diverso?» si domanda Michel, giovane gestore di un campeggio poco distante da Cagnes sur mére. Ha ragione. Si guarda avanti, fatalisti. In guerra capita di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, e si muore, centrati da un camion, a un concerto, durante una riunione di redazione o in chiesa.

La notte della strage di Nizza sembra lontanissima proprio nel luogo dove tutto è accaduto, qui dove la folla urlava sconvolta dal panico, di fronte al mare ancora tinto di bianco blu e rosso. La promenade des Anglais sembra tornata indietro al pomeriggio precedente: folle di turisti passeggiano, corrono, pedalano, godono dell’aria frizzante. Molti, ignari, appoggiano il proprio piede dove c’era una chiazza di sangue, un corpo fatto a pezzi. Un lontano sapore di macabro accompagna la festa e la consegna del sorriso di questa strana guerra appare giusta ma così veloce, implacabile e dura.

Sfrecciano le fuoriserie lungo il tragitto del camion bianco e si ha la vaga percezione che nulla sia mai accaduto, oppure tutto sia accaduto, ma moltissimo tempo fa. Il tempo della strage, quei pochi minuti di follia e tragedia, è un buco nero che ha attratto tutte le ombre francesi di questi anni. Mohamed era idiota e pazzo, pessimo musulmano, il ministro della Difesa e Hollande sono degli incapaci, ecco la spiegazione razionale a tutto.

«Ci pensi a cosa è successo qua dove siamo adesso?». Tutti sanno, tutti ricordano, tutti sono tristi e dicono che ci voleva più polizia, che l’unica risposta che si deve dare a quei «fottuti bastardi» è non cambiare nulla nel nostro stile di vita. Nello splendido teatro romano di Orange, affollato di turisti come non mai, Violetta invita Alfredo e goder della vita. «La signora delle Camelie», è un po’ la storia della Francia di oggi.