L’unico vero applauso corale di tutta o quasi tutta l’assemblea non è quello finale, quando alle cinque della sera il senato approva in prima lettura (ne servirà un’altra, e due alla camera) il disegno di legge costituzionale che modifica la procedura per revisionare la Carta del 1948. Non c’è un gran clima dopo le polemiche di mercoledì. L’Aventino del Pdl, evoluto in un simbolico intervallo di 24 ore, ha lasciato di cattivo umore i senatori Pd, partecipi dell’inganno. E mentre salgono le quotazioni della crisi di governo, crolla l’interesse per il percorso delle riforme che pare troppo lungo per una maggioranza troppo instabile. Così l’unico applauso diffuso arriva a metà giornata, all’altezza della pausa pranzo, quando ci si rende conto che la conduzione svelta dell’aula consentirà a tutti di tornare a casa nel pomeriggio. L’applauso è per il senatore, e presidente di turno, Roberto Calderoli.

Il presidente titolare Pietro Grasso gli lascia il posto già al mattino, ufficialmente per partecipare a un convegno, ufficiosamente perché bisogna condurre in porto centodieci votazioni e Calderoli in questo è un asso, gran conoscitore del regolamento. Sulle modifiche alla Costituzione la Lega è pienamente in maggioranza, e l’antico riformatore di Lorenzago assiste governo e larghe intese, non rinunciando a farlo pesare. «Se tra 18 mesi non sarà cambiato niente – dice a un esterrefatto ministro Quagliariello – verrò io stesso a prendere lei e il presidente Letta per le orecchie per portarvi in ginocchio sui ceci davanti a Napolitano a rassegnare le dimissioni. E non è una battuta, è una minaccia».

Così, negli stessi giorni in cui 67 anni fa all’interno della Costituente si formava la «commissione dei 75» che avrebbe scritto la Costituzione, il senato dice il primo sì al «comitato dei 42» che dovrebbe riscriverne la metà – con licenza di andare oltre, cambiando anche la prima parte sui diritti e doveri dei cittadini. Naturalmente non c’è l’ombra della solennità dell’epoca, né era lecito attenderla, è non c’è neppure il presidente del Consiglio in aula come pure correva voce. L’attenzione di Letta all’evento la si deve ricostruire da un tweet: «È un passo avanti per la necessaria riforma della politica. Rispettando i tempi».

I tempi sono la vera ossessione del governo. Sono stretti: non dovessero riuscire ad approvare la legge nello stesso identico testo entro le prossime tre settimane alla camera – al senato ce ne sono volute quattro, ed era possibile la procedura d’urgenza – il comitato non potrebbe partire prima di natale. È per questo che la maggioranza delle larghe intese, diventate larghissime con i leghisti, è andata avanti come un treno, respingendo tutti gli emendamenti delle opposizioni, confinate tra i banchi di Sel e del Movimento 5 Stelle. Altro che riforme condivise: un solo giorno c’era voluto in commissione per liquidare tutti gli emendamenti, una sola mattinata è bastata all’aula per confermare la raffica di «non approva». Solo le lievi modifiche firmate dalla relatrice Finocchiaro sono state accolte, assieme ad alcuni ordini del giorno che contano assai poco.

Eppure la solitudine del ministro Quagliariello ai banchi del governo e la distrazione dell’aula dovrebbero sollevare qualche preoccupazione per i tifosi delle riforme. Perché in nessuna delle tante votazioni la maggioranza è riuscita ad avvicinare la soglia dei 2/3 che nella seconda lettura dopo la pausa di riflessione sarà necessaria a evitare il referendum confermativo. Anche nel voto finale i sì al disegno di legge sono stati 203 (avrebbero dovuto essere 240 mentre per il quorum di sicurezza ne basterebbero 211). Due astenuti nel Pd (Tocci e Amati), due nel Pdl (Minzolini e Milo, avrebbero voluto di più contro la magistratura) ma soprattutto tanti assenti tra i berlusconiani, uno su quattro. «È un inizio», dice Quagliariello andando via con contenuta soddisfazione. Un inizio che sembra una fine.