Il regista giapponese Shinya Tsukamoto e’ un habitué delle selezioni concorsuali veneziane. Da molti e con in più il valore aggiunto di un nocciolo duro di affezionati, è visto come uno dei registi più talentuosi e visionari del mondo. La sua prorompente creatività, spesso, s’aggrappa a forti ancoraggi filosofici sul rapporto tra umanità e tecnologia dagli esiti per nulla scontati e forieri ancora di progressivi sviluppi anche negativi come  “la  perdita dell’istinto animalesco e un infantilismo di ritorno nell’intelletto umano”. Sebbene, per necessità e stile, si traducano in azioni cinematografiche a basso budget e in un perseverato uso di violenza e sangue, i suoi film sono stati catalogati in generi marginali oscillanti tra fanta-horror e cyberpunk.Di ciò, la trilogia “Tetsuo” è la sintesi più accreditata di tale credo.

 

 

Con Nobi (Fuochi nella pianura), film in concorso quest’anno, purtroppo assente dal palmares finale della Mostra, il regista giapponese conserva, con sagace ironia, da una parte le caratteristiche che lo hanno reso celebre; dall’altra, quasi controcorrente, pare virare su altri temi come l’ambiente e l’attuale assurdità della vita urbana, una “realtà che galleggia” sulla natura –  e anche “la nascita del figlio e l’arrivo di una maturità non solo intellettuale” gli hanno portato un cambiamento – e così ci si accorge che soltanto se avesse voluto privilegiare l’allusione, il velato, all’esplicita e disturbante violenza della barbarie dell’uomo in guerra, “Nobi” avrebbe potuto essere una di quelle opere totali ed espanse da inserire nella scia di “Cuore di Tenebra”, di “Viaggio al termine della notte”, “Paisà”, “Apocalypse now” e nel filone apocalittico letterario e cinematografico novecentesco. Infatti, non va sottovalutato l’appoggio letterario del film: “Nobi” è tratto dall’omonimo romanzo di Shōhei Ōoka del 1951, e ha avuto già un adattamento per il cinema da Kon Ichikawa soltanto otto anni dopo. La prima traduzione italiana è del 1957, uscita per Einaudi con il titolo di La guerra del soldato Tamura (l’ultima ristampa risale all’inizio degli anni ottanta).

 

Tamura, un soldato giapponese s’aggira nella giungla filippina con un manipolo di commilitoni. L’attesa spasmodica di qualche ordine e la consapevolezza che la loro fine sta per giungere, non soltanto per l’avanzata inesorabile di un invisibile nemico (i marines? I ribelli locali?), ma anche per la mancanza di cibo e l’aperta ostilità dei pochi abitanti che vi vivono, li sta completamente privando di giorno in giorno di qualsivoglia freno inibitorio. Soprattutto la fame e l’inedia sembrano prendere il sopravvento. Tamura, che e’ anche un intellettuale (puntello cocciuto di Tsukamoto più del cannibalismo profuso in ogni pagina del libro), in perenne stato febbrile e allucinatorio però sembra non arrendersi all’antropofagia conclamata dei suoi compagni di sfortuna (alcune situazioni più che rimandare al già citato “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola ricordano le potenti narrazioni di “I più non ritornano” di Eugenio Corti, scrittore scomodamente cattolico e reazionario,  sulla ritirata italiana di Russia), tanto da sopravvivere alla mattanza della guerra, restando minato dai ricordi nel fisico e nella mente. Premessa doverosa perché di tutto questo hanno conversato lo stesso Tsukamoto e lo scrittore e “visiting professor” a Ca’ Foscari, Masahiko Shimada in un incontro realizzato a corollario della proiezione di “Nobi” dal Dipartimento di Letteratura Asiatica dell’ateneo veneziano.

 

L’appartenenza alla stessa generazione, nata all’inizio degli anni sessanta, dunque quella formatasi sui ricordi di guerra dei nonni e cresciuta con Ultraman – il “con lui tra le nostre fila forse avremmo vinto la guerra” detto da Shimaao è da sobbalzo – e i cartoni degli anni settanta, unita alla sorprendente conoscenza del cinema di Tsukamoto, letto come “nobilitazione del corpo e dell’intelletto”, ha reso la conversazione brillante e profonda, nonché seguitissima dal pubblico in prevalenza giovanile accorsovi.

 

Ed è proprio lo scrittore di “Mi farò Mummia”, per ora unica sua raccolta di racconti tradotta in italiano uscita nel 1995 da Marsilio, a tenere le fila del discorso snocciolando un saliscendi di paragoni anagrafici e storici inaugurato dalla domanda:”Da dove viene tutta questa intelligenza?”.”Tsukamoto è nato nel ’60, io nel ’61, ritengo quindi che la nostra generazione sia l’ultima ad aver ascoltato il racconto diretto della guerra dai nonni” o “dai reduci” aggiunge il regista. In tale spazio narrativo si è sviluppata la crescita dei due, simile ma divergente tanto che Tsukamoto rammenta che il suo crescere è andato di pari passo con la costruzione dei grattacieli che occuperanno lo skyline di Tokio e formeranno la visione della città come “grande culla materna”: “L’idea di “Tetsuo” ha origine da questa mutazione dello spazio urbano e dal desiderio post-adolescenziale di vedere saltare in aria quegl’edifici”. “infatti, sentivo allo stesso tempo affetto per l’operosità dei nostri padri per la costruzione di questi grattacieli, dall’altro avvertivo un senso di soffocamento della realtà. Pensavo che gli spazi vuoti potessero in città essere delle valvole di sfogo”.

 

“La vita felice adombrata in “Tetsuo II” alla fine trova verifica nell’uno che si fonde, senza vincitori né vinti”. “Insomma, si continua a vivere” replica Shimada, “pur nello shock. Comunque, trovo il tuo lavoro molto artigianale, simile a Chaplin e a Leonardo da Vinci. Intravvedo la tua abilità a fare tutto nel film. Penso anche al primo Bunuel, a “Unchien andalou”. Questo ritengo che sia importante per i tuoi film”. La replica del regista è radicale: “Ho studiato pittura, l’immagine visiva ha rivestito sempre una notevole importanza in ciò che andavo costruendo. Se ci fai caso anche la musica ha un proprio ruolo nel mio cinema. Ogni effetto sonoro necessariamente deve entrare nella storia e tu vorresti esserci”. Un imbarazzato e comico “non vorrei essere maltrattato” di Shimada pone così a chiusura il dialogo.