La nuova stagione del San Carlo si apre con un’opera verdiana, siamo ancora in zona-bicentenario ricordiamolo, e questa volta tocca ad Aida (repliche fino al 17 dicembre), tra le popolari quella che più si presta a fraintendimenti: opera ancipite, che alterna i momenti forse più ritmicamente irresistibili della storia del melodramma (la «marcia trionfale»), alle più sinuose e seducenti melodie che il maestro abbia ideato. Grazie alla sua ambientazione nell’antico Egitto, all’epoca il massimo dell’esotismo per indeterminatezza cronologica, Verdi riesce a trasformare la formula del grand opéra in una riflessione sul potere che non lascia scampo neppure agli eroi, tematica che aveva già affrontato nel suo lavoro più ambizioso e audace, Don Carlos, presentato nel 1867 a Parigi.
Aida, che nasce per il teatro del Cairo, dove va in scena nel 1871, è opera di struttura tradizionale in cui le arie si alternano a duetti, terzetti e quartetti giustapposti a grandi scene d’insieme – nelle quali diviene palpabile l’incertezza e lo smarrimento dei protagonisti – che spinge Verdi verso una sofisticata pluralità stilistica, anche attraverso il recupero di «modi» musicali antichi.
Di questa «doppia faccia» dell’opera – in cui ognuno «cerca un altro Egitto» dove ricomporre dovere e amore, eroismo e scoramento, alterezza e pietà – Nicola Luisotti, alla testa dell’orchestra del San Carlo, ha dato una lettura sovranamente unitaria. Non solo le scene si saldano perfettamente l’una all’altra ma in ciascuna di esse un ritmo interno batte ansiosamente, rendendo consequenziale e inesorabile lo svolgersi della vicenda. Una scelta direttoriale che dà ovviamente minor peso alla peculiarità timbrica e a una certa estenuazione melodica, uno degli aspetti più catturanti dell’opera, conservando però intatta la solennità che contraddistingue i personaggi e le grandi scene di massa, ma una scelta che, non perdendo mai di vista il dramma, tiene avvinta l’attenzione come di fronte a una storia inedita.
Il nome del regista, Franco Dragoni, tra i protagonisti del Cirque du soleil, faceva già intravvedere le caratteristiche dello spettacolo, che è rutilante di invenzioni, luci e interpretazioni assai personali, come il grande lenzuolo insanguinato che fa da sfondo alla marcia trionfale o i ballerini «classici», egiziani, opposti ai barbari etiopi, che sono invece funamboli, breakdancer, acrobati, scelta che rafforza l’intenzione di Verdi di creare una vicenda fuori dal tempo ma non dalla storia. Nella scenografia di Benito Leonori il palco appare come un grande acquario, delimitato da un recinto di corde, all’interno del quale interpreti, ballerini e comparse si muovono in una luminosità versicolore che si spegne solo nell’oscurità del sepolcro fatale.
La compagnia di canto del secondo cast vede nei ruoli principali Kristin Lewis come Aida, bel timbro ma tecnica ancora immatura, Stuart Neill è Radamès, spavaldo quanto basta, mentre Sonia Ganassi disegna una Amneris altera e regale. Come accade a ogni opera d’arte anche Aida, pur rimanendo sé stessa, è stata ridisegnata al San Carlo con austerità e sensibilità adeguate ai nostri difficili giorni, e il non rifugiarsi nella routine nascondendosi dietro l’asprezza del momento è merito non piccolo da ascriversi a quanti hanno creduto e voluto questo spettacolo che, nonostante i problemi economici che affliggono anche i grandi teatri, risponde con intelligenza alle attese del pubblico.