La vita è tutta un periodo particolare, eppure ci sono periodi che più di altri ci mettono alla prova. Joanna Pocock usa un termine francese, ennui, per richiamare il senso di quella che ha l’aria di essere un’esperienza universale. «È il momento in cui ci rendiamo conto di avere più passato che futuro» scrive all’inizio di Surrender, il memoir-reportage che le è valso il Fitzcarraldo Prize nel 2018, «il momento in cui realizziamo che il noto sta eclissando l’ignoto». Non si tratta necessariamente di una fase da collocare al centro della propria biografia, precisa la scrittrice d’origine canadese che dopo aver vissuto a Londra per venticinque anni è partita una mattina insieme alla figlia e al marito per trasferirsi in Montana, nel West americano, senza sapere per quanto. Dopo la morte della sorella, alle prese con i meccanismi incomprensibili di un sistema ormonale improvvisamente inceppato, mentre lavora a un romanzo che non prende forma e si prepara a perdere entrambi i genitori, Pocock documenta prima di tutto lo scenario di un cedimento, l’inizio del racconto ha la forma di un’implosione.

LA FORZA DI «SURRENDER» – pubblicato in primavera nel Regno Unito, appena uscito in Canada e in corso di pubblicazione negli Stati Uniti – sta forse proprio nell’inaggirabile corrispondenza che salda una sfaldatura interna al collasso del mondo. Quel breakdown che di recente ha sostituito la parola «cambiamento» nel dibattito sul clima non fa, come si potrebbe pensare, da sfondo agli eventi, ne incarna il cuore pulsante capace di tenere in vita, a diversi livelli, connessioni infinite. «Sono una preda, tutti lo siamo. È nell’ordine delle cose», realizza Joanna dopo aver parlato con un cacciatore contrario alle trappole incontrato per caso durante una biciclettata in solitaria sotto la pioggia, poco lontano dalla sua nuova casa, a Missoula. È l’inizio della storia, l’incidente che decide tutto. «In Montana non era più possibile salire su un autobus e trovarmi nel giro di mezz’ora alla National Gallery o alla Tate Modern, così la mia attenzione si è spostata e questo ha fatto sì che mi accorgessi della mia piccolezza, una piccolezza da cui ero fuggita quando da ragazza ho lasciato il Canada», racconta nel corso della nostra intervista.

La scrittrice Joanna Pocock

Più che resoconto di viaggio, Surrender è la testimonianza di un’esplorazione, un passaggio attraverso il deserto, le città sopravvissute ai disastri, le foreste che bruciano, i fiumi inquinati, una costellazione di creature minuscole o gigantesche che tentano costantemente e in tutti i modi di colonizzare il corpo della protagonista, le stanze in cui ha dormito, e quindi i suoi sogni, la sua immaginazione. That’s the Wild West, baby, verrebbe da dire. Se non fosse che non c’è più alcun oro da cercare, neanche metaforicamente.

DI FRONTE AI GIOCHI PRIVATI dei cuccioli di lupo nello Yellowstone National Park, davanti alla voragine del Berkeley Pit, una piscina d’acqua tossica appartenente alla vecchia miniera di rame a Butte, Joanna intravede il fondale dell’esistenza. «Il mistero della vita e quello della morte sono così intrecciati, l’abbiamo dimenticato. Scoprirmi piccola e selvatica mi ha restituito gli elementi che mancavano al mio essere umana», racconta.
Rispetto a un orizzonte culturale sopraffatto dal mito del successo, saturo di never give up e if you can dream it you can do it, il titolo Surrender potrebbe suonare come un invito alla resa, ma è davvero così? «È una parola che ha molti significati, questa cosa mi piace«, risponde Pocock. «C’è una forza precisa nel decidere di non combattere le cose e cercare delle soluzioni a partire da quello che manca, noi umani abbiamo bisogno di arrenderci alla Terra per poterci relazionare con essa in modo adeguato. In questo senso, arrendersi può essere una forma di resistenza». Non si tratta di un’idea, è quello che Pocock ha imparato a suo rischio e pericolo vagando due anni per autostrade, pianure e sentieri di montagna, apparentemente senza meta. «Stavo scappando», scrive nel suo memoir cercando di individuare un punto di partenza, «e stavo anche cercando qualcosa, ma non sapevo cosa».

Mentre il marito lavora al suo nuovo progetto, e sua figlia inizia a frequentare la scuola, Joanna si concentra a trovare un fuori: si documenta sulla storia del territorio, raccoglie fonti, ricostruisce avvenimenti, rintraccia l’andamento delle catastrofi locali e s’imbatte in strani personaggi, visioni spesso reazionarie e conservatrici, altre volte fortemente radicali, come quelle portate avanti da nuove comunità nate per contrastare il riscaldamento globale. Dai Three Percenters – un gruppo armato di fanatici della Costituzione che tiene insieme patriottismo e omeopatia – agli scavenger impegnati ad affinare le capacità ancestrali per dare la caccia ai bisonti, fino ai cerchi sacri di Finisia Medrano – leader carismatica transessuale di un gruppo di rewilder – alla convergenza ecosessuale con le sue pratiche di erotismo diffuso, l’umanità di cui Pocock racconta in Surrender fa vacillare le vecchie categorie di destra e di sinistra, i concetti di selvatico e domestico, conservazione e progresso.

L’OVEST DEL SOGNO americano, della reinvenzione di sé, diventa adesso un territorio residuale, da proteggere. «C’è ancora così tanto per cui lottare», commenta Pocock. «Donald Trump e la sua amministrazione stanno ritirando la maggior parte delle misure di salvaguardia dell’acqua, delle terre e dei loro abitanti umani e non umani. Stanno svendendo le risorse agli interessi privati, per il fracking, le estrazioni minerarie, petrolifere e di gas». Sembra l’apocalisse, invece è il disordine in cui viviamo tutti. «Continuo a pensare a questa schizofrenia come allo stato normale del nostro tempo: nelle grandi città i nostri figli contestano l’ecocidio in corso senza rinunciare alle mode veloci e all’iPhone. Non è colpa loro, sono bambini, è colpa nostra, che abbiamo creato le condizioni per una crescita esponenziale. Non risolveremo mai la crisi climatica finché non cominceremo a restituire alla terra più di quello che prendiamo». Al cospetto di tale certezza persino scrivere può risultare un atto superfluo. È una constatazione paralizzante, alla quale si sopravvive solo venendo a patti con il caos, riconosce Pocock, che l’ha imparato da Joan Didion, di cui nel libro cita più volte l’indimenticabile Verso Betlemme. «Avevo iniziato a scrivere dei saggi, non avevo idea che potessero diventare Surrender», confida l’autrice.
Nelle pagine, il vissuto di Joanna s’intreccia di continuo alla storia dell’ambiente, alle genealogie dei pionieri, alle traiettorie che gli europei hanno percorso sul nuovo continente attraverso le tecniche agricole e l’allevamento degli animali per arrivare a definire la proprietà privata. Nella sua versione finale, Surrender mantiene la selvatichezza del quaderno di appunti – le piccole foto in bianco e nero scattate talvolta al crepuscolo, davanti a un motel, o sulla soglia della tenda di un accampamento, punteggiano una mappa per non perdersi quando arriverà il buio. «Avevo paura che approfondendo la storia delle attività estrattive, del diritto alla terra, avrei potuto perdere l’interesse delle persone, ma finora non è successo. Mi rendo conto che si tratta di un libro strano che tratta diversi argomenti, ha una forma ibrida ma è così che la mia testa funziona», spiega l’autrice, che dalla wilderbabe di Katie Russel al mito di Lilith, al lavoro di Annie Sprinkle, tenendo viva la necessità di ripensare la maternità e la menopausa a partire da sé, contribuisce a tracciare anche e soprattutto il profilo ampio di ciò che una donna non addomesticabile oggi potrebbe essere.

E CI SARÀ BISOGNO di annusare le viscere di un enorme mammifero, o di seguire con le dita la cartografia dei corsi d’acqua, per recuperare il contatto, scoprire a cosa un paesaggio interno può assomigliare. È qualcosa che difficilmente riusciamo fare nelle nostre città-babilonie, dove le affissioni pubblicitarie di lingerie avvertono continuamente le bambine su come una ragazza dovrebbe essere, spiega Pocock, attualmente di nuovo a Londra Est, dove è tornata a vivere ma non vuole restare. «Trovo tutta questa faccenda della Brexit deprimente. Una volta, a Londra mi sentivo a casa, adesso non ne sono più convinta. Credo che dopo la Brexit l’Inghilterra non sarà più il posto dove vorrò vivere, sto pensando a come sarebbe trasferirmi in Scozia, e mi piacerebbe ritornare a Missoula. Ma la realtà è che sto fluttuando, non sono ancora atterrata da nessuna parte e probabilmente non accadrà mai», riflette ripensando al suo West. A guardarla da qui, l’Europa è già un continente sommerso. Una casa infestata, dove non è più possibile tornare.

Romanzi, ambiente r lavoro a Notting Hill

Joanna Pocock sarà ospite della terza edizione di Fill, il Festival della letteratura italiana a Londra, dove si confronterà – domenica 3 alle 14 – con il fotografo e giornalista Alberto Giuliani, autore de «Gli immortali, storie del mondo che verrà» (Il Saggiatore). Un programma denso, quello del festival, che si articola attorno al concetto di «rottura» e ha per logo un acquario popolato di lettori che ne crepano le superfici. Tutti gli appuntamenti si terranno il 2 e il 3 novembre negli spazi del Coronet Theatre, a Notting Hill, dove autrici e autori si confronteranno su grandi temi del presente: le sorti del romanzo e quelle del pianeta, il ruolo dell’arte e della traduzione, il futuro della democrazia, i femminismi, l’appartenenza di classe, l’impatto delle nuove tecnologie. Tra gli ospiti: Rachel Cusk, Edoardo Albinati, Donatella Di Cesare, Ece Temelkuran, Gary Younge, Asif Kapadia, Laura Pugno, Olivia Rosenthal, Matteo B. Bianchi, Loredana Lipperini, Ian Penman, Rebecca Tamàs e molti altri. Il programma completo è su fill.org.uk