Al di là dei dettagli, tra i quali si nasconde tanto il buon Dio, quanto il diavolo, che bisognerà analizzare attentamente quando tutte le carte della manovra saranno sul tavolo, è bene chiedersi quale sia l’esito del doppio conflitto in corso. Tra l’Italia e la Ue da una parte e tra i contraenti il patto di governo.
Nell’uno e nell’altro caso il ministro Tria è apparso come un vaso di coccio tra vasi di ferro, ma tutto sommato non ne è uscito in frantumi. È stata vera battaglia?
Certo non si è trattato solo di una “finta”, come era già evidente con il passo indietro sulle previsioni dell’aumento del rapporto deficit/pil, ma neppure di una contesa all’ultimo sangue.

SE GUARDIAMO alle tensioni fra Roma e Bruxelles, già le dichiarazioni assai più distensive di quelle di Juncker, da parte di Mario Draghi facevano intravedere la possibilità di un compromesso. Vedremo ora come la Commissione reagirà. Ma una guerra non conviene a nessuno, essendo l’Italia sia too big to fail quanto too big to be saved. Lo spread è balzato sopra i 300 punti, raddoppiando i dati dell’inizio d’anno, ma quota 400, la soglia del pericolo vero, non è per ora in vista.

Peseranno certamente i giudizi delle agenzie di rating, ma non è detto che saranno così implacabili. La turbolenza finanziaria c’è stata, soprattutto in reazioni alle dichiarazioni roboanti dei due dioscuri del governo, salvo però attutirsi dopo le ripetute assicurazioni di fedeltà all’eurozona e il delinearsi della effettiva non travolgente portata dei provvedimenti.

Il ruolo tranquillizzante di Mattarella non è mancato, come è dimostrato dal suo incontro con Draghi e quello previsto tra poco con Moscovici, firmatario della lettera che raccomandava al nostro paese di non deviare dal percorso tracciato dal Consiglio europeo.

LA LEADERSHIP europea non intende rinunciare al rigore che in ogni occasione viene ribadito, ma la sua operatività viene gestita in modo più smussato. Le elezioni di fine maggio ci sono per tutti e gli esiti di quelle che ci sono già state, in interi paesi o parte di essi, non hanno dato esiti tali da gonfiare le vele di un rigorismo doc.

Sul piano interno la partita si chiude con la soddisfazione di tutti i contendenti. Siamo alla solita pantomima del nessuno ha perso? Non esattamente. Certamente Salvini, con l’occhio rivolto ai sondaggi, grida più forte alla vittoria. Ma, a guardare bene le principali voci in cui si articola la manovra, ognuno può vantare di avere effettivamente portato a casa qualcosa per il suo elettorato di riferimento.

Se Di Maio ottiene la promessa del carcere per i grandi evasori, Salvini incassa un complesso di misure che sembrano fatte per premiare la fedeltà elettorale della media e piccola imprenditoria del Nord: la rottamazione-ter delle cartelle; la sanatoria delle liti fiscali in corso; il colpo di spugna sui debiti con il fisco sotto i 1000 euro; la possibilità per chi ha evaso di presentare una dichiarazione integrativa (soluzione già vista con Berlusconi e Tremonti), pagando solo il 20% sull’imponibile emerso. Ci sono limiti e paletti, voluti dai 5Stelle, come il tetto dei 100mila euro, ma in sostanza siamo di fronte a un fior di condono fiscale alla faccia di tutti quelli che hanno pagato anche le multe per divieto di sosta.

IL PROVVEDIMENTO sulle pensioni d’oro non è nel decreto, ma nel testo della manovra e parla di un pavimento, in questo caso, di 4.500euro netti. Il che rende perlomeno dubbio il supposto gettito di 1 miliardo in tre anni, ma ciò importa poco a chi ne beneficerà.

Sull’altro fronte il reddito di sudditanza (così conviene chiamarlo) c’è. Di Maio assicura che il 47% andrà al Nord; i condizionamenti sono temperati dalla possibilità di rifiutare offerte di lavoro fuori da un certo perimetro di raggiungibilità, senza decadere dal sussidio, ma rimane il carattere odioso del controllo sulle scelte di spesa. Lo stato etico è l’anticamera del regime.

Sulla Fornero si ribadisce la quota 100, destinata però ad allungarsi fino a 104, restando fermo il numero degli anni di contribuzione a 38, né si sa con esattezza quanti sono, sembra due, gli anni di contribuzione figurativa che possono essere utilizzati, con grave nocumento per donne (sebbene resti “l’opzione donna”)e precari. In ogni caso i calcoli di Tito Boeri sanno più di terrorismo psicologico che di scientificità, almeno quanto la previsione che per ogni pensionato ci sarà uno o più nuovi assunti. Tutti sanno che non c’è alcun automatismo in questo senso.

L’ECONOMIA europea sta di nuovo rallentando, compresa quella tedesca; nel nostro paese si verifica una crollo della produzione industriale; i rischi di una nuova crisi economico-finanziaria di proporzioni internazionali riempiono copertine e articoli dell’autorevole The Economist. Lo 0,2%, ossia 3,5 miliardi da destinare agli investimenti possono fare ben poco, soprattutto se non si sa come e dove.
Parlare di manovra keynesiana è una bestemmia, perché essa presuppone non solo un rimescolamento distributivo in basso, ma una politica di investimenti innovativa e di alto tasso occupazionale.

TUTTAVIA sarebbe un errore sottovalutare l’impatto che questa manovra può avere nel senso comune. Troppo rigore è stato speso negli anni per non provare rancore. La compagine governativa sa approfittarne e si prepara così anche alla scadenza del voto europeo. Non imploderà da sola, né per la rampogne della Ue che sarebbe un suicidio invocare.

Un governo senza opposizione va avanti e può provocare ulteriori danni, come un’aggressione senza precedenti alle fondamenta costituzionali del nostro paese. Costruire una opposizione è l’unico modo per fermarlo.