La locandina dell’opera che chiude la stagione 2013 del Petruzzelli, mostra un particolare che, non si sa se consapevole e voluto, certo suona ora come un’alchimia non solo anagrafica. A dirigere l’orchestra per Falstaff (in scena fino al 28) è il direttore musicale stabile del teatro barese, il trentenne Daniele Rustioni; la regia invece è affidata a Luca Ronconi, il maestro riconosciuto di tutto il teatro italiano, che dall’alto dei suoi ottant’anni (e alla sua centesima e passa esperienza lirica) potrebbe correre il rischio di vedersi riconosciuto come «mostro sacro». E invece l’effetto è sorprendente: la vitalità (anche sul podio) del giovane musicista si lega alla perfezione con la «semplicità» che è il tratto distintivo di questa «terza volta» ronconiana. Il regista aveva infatti curato un Falstaff a Salisburgo nel 1993, con Georg Solti direttore e Josè Van Dam protagonista, e un altro al Maggio fiorentino nel 2006, con Zubin Metha e Ruggero Raimondi. Ma evidentemente non era soddisfatto, sia per gli spazi troppo grandi, inadatti a un’opera che lui ha sempre visto «da camera», sia per come ne risultava la figura del protagonista.
Questi, si sa, nasce come creatura shakespeariana, e Arrigo Boito per il libretto verdiano attinse a Le allegre comari di Windsor e a qualche scena di Enrico IV. Ma soprattutto il compositore, alla sua ultima creazione lirica, abbandonò lo schema di molte sue opere, e disseminò la partitura di una serie di segnali innovativi che ne fanno già un’opera «prenovecentesca». Si presta bene la figura contraddittoria di Falstaff, lo scudiero reale che ormai si dissipa all’Osteria della Giarrettiera, architetta mirabolanti incontri erotici, e poi finisce per essere giocato sia dalle signore che meditava di impalmare, sia dai familiari di queste che architettano invece per lui una notturna vendetta, in quel topico ambiente shakespeariano che è il bosco fatato e crudele. Ronconi sembra assecondare con leggerezza la drammaturgia verdiana: quell’uomo grasso e gradasso tanto sicuro del proprio eros senile, affondato tra bottiglie e cuscini quanto lui malfermi, si trasforma con il racconto in un malinconico vecchio, umiliato e deriso dalla perfide femmine, e ancor più dai borghesucci che gli si accaniscono contro. Tanto che il suo finale «Tutto è burla» suona sinistro e definitivo quanto Don Giovanni davanti al Convitato di Pietra.
I costumi di Maurizio Millenotti sono evocativi di un tempo passato , e maliziosi nel disegnare quella «guerra per bande». Sono davvero mirabolanti le scenografie di Tiziano Santi, che con apparente essenzialità, attraverso teloni di diverso colore e disegno, tirati a mano con le corde, sembrano sfogliare un album di esperienze e sensazioni che tutti potremmo aver attraversato: con improvvisi scintillii di macchinari da rivoluzione industriale. Spinto dalla bacchetta di Rustioni e dal suo gesto deciso, il cast vocale non solo canta bene, ma si presta benissimo a impersonare quella consorteria dorata e incncludente.
È bravissimo Roberto De Candia, che sulla grazia dell’indirizzo vocale scopre buone doti di attore, e assai fascinose sono pure le scatenate signore: Serena Farnocchia (Alice), Rosa Feola (Nannetta), Barbara Di Castri (Quickly) e in particolare Monica Bacelli (Meg) forte del suo infinito carisma. Confermano che una nuova leva di cantanti di pregio, pronti a rendere non solo la voce ma anche il corpo dei personaggi, è nata anche in Italia. E allo spettatore, dopo tanto piacere, non resta che pensare: a quella che pareva una commedia, e invece è una grande meditazione, sull’umanità, sulla vecchiaia, e sui rapporti di forza tra gli individui, spesso così poco equilibrati.