Potremmo chiamarla «la maledizione di Paolo Savona». Stava per far saltare la formazione del nuovo governo, su cui ora pesa la sua iscrizione nel registro degli indagati alla procura di Campobasso, per «usura bancaria».

Sul piano simbolico una tegola non tanto leggera, viste le campagne sulle banche degli anni scorsi di entrambi i partner di governo.

Come leggère non sono state neppure le sue recenti uscite pubbliche, quella sul «cigno nero» (prepararsi all’eventualità di un’uscita dall’euro), che ha sollevato un vespaio di critiche e le reazioni stizzite del leader pentastellato e del ministro dell’economia, e soprattutto quella, più indecifrabile, sugli attivi della nostra bilancia commerciale.
Messo da parte il Piano B (fuori dall’euro), il ministro ha accennato a quello che, secondo lui, potrebbe essere un plausibile Piano A: «Attivare l’avanzo di parte corrente della bilancia estera».

Dai giornali si è capito che avrebbe «trovato» un tesoretto di 50 miliardi, di cui finora nessuno s’era accorto, con il quale si potrebbero finanziare nuovi investimenti pubblici, senza mettere in discussione i vincoli europei.

Ottimo, verrebbe da dire. Ma, in realtà, a cosa si riferiva? Per saperlo bisogna andare sul sito di Bankitalia, alla voce «bilancia dei pagamenti». L’ultimo report di via Nazionale sulle transazioni del nostro Paese col resto del mondo ci dice che «nei dodici mesi terminanti ad aprile 2018 l’avanzo di conto corrente si è attestato a 45,5 miliardi di euro (il 2,6 per cento del Pil)».
In sostanza, nel periodo di riferimento, le nostre imprese hanno esportato merci in misura maggiore di quanto il Paese ne abbia, complessivamente, importato (è così dal 2012).

Più che un «tesoretto» nella disponibilità del governo, parliamo quindi di un importante indicatore economico, da cui si evincono i flussi di capitale, in entrata e in uscita, tra noi e il resto del mondo. Soldi che afferiscono agli scambi commerciali dei nostri operatori economici (e ai loro profitti) ed ai crediti (o debiti) che ne derivano, una cosa diversa dalle risorse di bilancio, qualunque sia la loro provenienza.

Da un punto di vista macroeconomico, ciò spiega anche perché il nostro Paese sia uscito dalla recessione, nonostante una domanda interna che rimane tuttora bassa: esportazioni trainate da bassi salari (svalutazione del lavoro), secondo la regola tedesca che è stata imposta al resto dei paesi europei, profitti più lauti per le imprese che si rivolgono alla domanda estera.
Non si capisce, invece, che bisogno c’era di scomodare questo dato per invocare un piano di investimenti pubblici, che peraltro, secondo Savona, farebbe bene a «proporre» la stessa Unione Europea.

Avrebbe fatto meglio, il ministro, a chiedere che l’Europa si facesse carico di un grande piano di investimenti, soprattutto per i paesi periferici, ovvero che l’Italia, per qualche anno, potesse sforare il tetto del deficit, come hanno fatto altri paesi in passato, per rilanciare l’economia e l’occupazione, senza esporsi a rischi gravi con i mercati finanziari.

Ma poi, se applicassimo, anche solo ai fini della quantificazione degli investimenti, lo stesso criterio agli altri paesi europei, la Germania potrebbe chiedere il via libera ad un programma di investimenti di 250 miliardi di euro, pari all’ammontare dei suoi surplus commerciali (9% del Pil), mentre rimarrebbero a bocca asciutta Francia, Spagna, Portogallo e Grecia, con il loro conto corrente in rosso. Un vero paradosso.

L’Italia, come tutti i paesi della periferia dell’Unione, ha bisogno di investimenti pubblici, di politiche redistributive e per il lavoro, a prescindere dall’andamento del suo bilancio estero.
Gli squilibri commerciali vanno corretti, non possono costituire la base di partenza per un improbabile «sistema premiale» alla rovescia.
Ma forse quella di Paolo Savona è stata solo una provocazione (ma a che pro?). Anche perché riesce difficile immaginare che il ministro abbia pensato di finanziare gli investimenti pubblici appropriandosi dei profitti e dei risparmi privati degli italiani. In fondo, parliamo di un banchiere, ora pure sotto inchiesta, non di un bolscevico.