Nel mondo del rock, almeno a far data dal 1994, quando se ne andò Kurt Cobain, si usa l’espressione «Club 27», a indicare l’assortita pattuglia di frequentatori del mondo elettrico che non hanno conosciuto i trent’anni, tutti assestati su quel sinistro dettaglio cronologico. Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Amy Winehouse, e via citando. Anche il jazz storico ha la sua bella e inquietante pattuglia di musicisti che rimarranno «giovani per sempre», cristallizzati in un’immagine di gioventù e assieme di maturità musicale che stride, e molto, con i pochi anni a loro concessi, e che dunque ha creato anche come inevitabile corollario un alone mitografico. Gente giovane che se n’è andata per sregolatezza individuale, per malattia improvvisa, per combinazione delle due concause, per incidente.

LANCIO DI DADI
Il tiro di dadi del destino è sempre una faccenda complessa, il rotolare dei cubi verso la fermata finale su una delle facce è il momento ineludibile più temuto, ma inevitabile. Settant’anni fa esatti, ad esempio, il 7 luglio 1950, se ne andava Fats Navarro, piccolo grande eroe trombettista di una fase decisiva nella storia del jazz che identifichiamo, tout court, con il termine bebop, quelle due sillabe onomatopeiche che alludono alle montagne russe spericolate dei profili melodici dei bopper, Dizzy Gillespie e Charlie Parker in testa (altro morto giovane, ma un po’ sopra i trent’anni, anche se il coroner che lo vide, notoriamente, assegnò almeno tre decenni in più a quel corpo provato dagli eccessi). A dire il vero Theodore «Fats» Navarro, nato nel 1923 a Key West, il punto più meridionale della Florida, pianista precoce poi passato alla tromba, da ragazzino nel be bop degli anni Quaranta ci finì a capofitto, aderendo a quell’estetica bruciante, ma rappresentandone, al contempo, il lato forse più lirico, più sognante: quello che in Parker, ad esempio, si ritrova solo nelle discusse (e magnifiche) incisioni con orchestre d’archi. Come tanti jazzisti afroamericani, Fats Navarro si portava nel sangue un melting pot realizzato di influssi: un po’ cubano, un po’ cinese, un po’ nero. Dopo essersi impratichito con la tromba, il giovanissimo Fats Navarro trova subito lavoro con le orchestre da ballo: è il periodo trionfante dello swing, l’America roosveltiana ha bisogno di ottimismo e oliate macchine antidepressive per la danza, e lo swing offre tutto questo. Poi, l’approdo a New York, nel ‘46: il posto dove il lavoro c’è, sempre, e dove un pulviscolo di locali che si animano alla sera offre altre possibilità ai giovani che suonano lo swing, e covano ben altre idee, oltre il ristretto numero di battute a loro riservate dai capiorchestra. Sono i locali delle jam session fino alle prime luci dell’alba del bebop, dove stazionano i ragazzi della Beat Generation, dove l’amico di Jack Kerouac Jerry Newman porta il suo registratore a fil di ferro magnetizzato, e fissa per sempre qualcosa di quanto destinato a svanire nell’etere di quelle sere mercuriali. Fats Navarro trova il «suo» posto al Minton’s Playhouse, si fa notare subito con il suo fraseggio incisivo, veloce, eppure lontano dai picchi asimmetrici e vertiginosi di Gillespie. Miles Davis lo ascolta e lo ammira, con grande rispetto. È un’altra di quelle figure poco considerate che mostrano come anche le più ardite rivoluzioni sonore vivano di sotterranee e allusive linee di continuità tra tutte le musiche di una comunità, non solo di plateali «strappi alle regole».
Nel ’47 Fats Navarro trova il suo alter ego ideale in Tadd Dameron, pianista e raffinato arrangiatore che, come lui, pratica una sorta di meditata continuità tra la secca velocità del bebop e il lirismo del fraseggio («C’è abbastanza rabbia nel mondo, io sono solo interessato alla bellezza», dichiara in un’intervista), da sviscerare in frasi lunghe, che scavalcano le cesure delle sezioni rigide da otto misure. Un bel sodalizio, che produce piccoli capolavori. E che il santone del cool jazz Lennie Tristano userà subito come modelli nei suoi leggendari itinerari didattici, isolando gli assoli di Fats Navarro.
Lui è un uomo iperattivo e tranquillo, ma finisce comunque nelle lusinghe dell’eroina, che lo indebolirà decisamente. Il suo ultimo concerto è il 30 giugno del 1950 al Birdland, il locale dedicato a Parker: che quella sera, sul palco, suona come un indemoniato visionario, a fianco di Fats, di Bud Powell, di Mingus, di Art Blakey. Poi, per Navarro, arriva la crisi di tubercolosi, all’epoca uno spauracchio temibile, ma micidiale su un fisico provato dall’abuso di polvere bianca.

ELEGANZA
Il suo fraseggio tutto linee sinuose ed eleganti avrà enorme influenza su un altro trombettista che non riuscirà a vedere trent’anni, e lascerà un altro segno forte sul jazz, Clifford Brown. Il tutto a dispetto della minuscola porzione temporale in cui riesce a dispiegare un talento immenso, sovrabbondante: appena quattro anni che ne riassumono la carriera. Era nato a Wilmington, nella Carolina del Nord, nell’ottobre del 1930, e sin da ragazzino aveva scoperto che la tromba era il suo strumento congeniale: non gli pesavano neppure gli esercizi più pesanti, sapeva dilatare una presa di fiato su trentadue misure, l’intera esecuzione dello scheletro regolare di una canzone. Le prime registrazioni le fa a ventidue anni, lo notano sia Dizzy sia Fats Navarro, appunto: di quest’ultimo «Brownie» ha ripreso, consciamente o no, l’attitudine a un lirismo rotondo e architettonicamente perfetto, assai meno spigoloso di quello di altri trombettisti del periodo. Simmetricamente alla vicenda biografica di Fats, anche Clifford Brown a un certo punto finisce alla bella corte «lirica» di Tadd Dameron, per poi passare a suonare con Lionel Hampton, il vibrafonista swing che con le sue piccole formazioni e l’orchestra getta un ponte tra swing, rhythm and blues, nuova grammatica bebop. La consacrazione con due grandi batteristi nati col bebop, ma già oltre nella pratica musicale. Prima Art Blakey, poi, in California, Max Roach, con il quale Clifford Brown forma un sodalizio svettante, potendo presto contare anche sulla forza titanica di un altro dei più grandi improvvisatori della storia del jazz, il «saxophone colossus» Sonny Rollins chiamato a rilevare il posto del già notevole Harold Land. Al piano c’è Richie Powell, fratello di Bud, George Morrow al contrabbasso. Dura tre anni l’avventura di Clifford Brown con Roach, dal ’53 al ’56, e ogni concerto, ogni disco è un centro pieno, e una messa a fuoco di quell’estetica composita ma anche immediatamente comunicativa che il mondo degli appassionati di jazz conosce come «hard bop». Armonie limpide, temi scattanti o assai romantici, lunghe escursioni strumentali riservate ai solisti, ma senza la velocità volutamente radente e quasi astratta dei primi bopper. Clifford suona frasi tornite e perfette, morbide e stagliate, scrive brani che dureranno: Joy Spring, Daahoud, The Blues Walk. Nel ’54 mette la sua tromba a servizio della voce brunita di Sarah Vaughan: la luce dorata dalla campana di Brownie, gli affondi scuri e nebbiosi, ingolati della Vaughan. Una complementarietà assoluta. Ancor meglio va quando incide With Strings, nel gennaio del ’55, tromba, gruppo e orchestra d’archi assieme, sulla scia di quanto avevano fatto anche altri, a suggello della maturità personale e stilistica, e un po’ anche perché la formula «solista jazz con gli archi» si vendeva bene. Arrangia e conduce Neal Hefti, Brownie è morbido e possente come non mai. Il destino, come sempre, è in agguato: già a vent’anni, nel ’50, Clifford Brown era stato vittima di un incidente stradale grave, poi ne arriva un altro, e infine, nel ’56, il terribile schianto con l’auto mentre si sta trasferendo per lavoro da Philadelphia a Chicago. Ha ventisei anni. Con lui c’è Richie Powell e la moglie, muoiono tutti. È passato appena un anno dalla tragica ed al contempo quasi surreale fine di Charles «Bird» Parker, morto davanti a una televisione accesa come un qualsiasi impiegato senza grilli per la testa. Bird che, peraltro, adorava Clifford Brown: l’uomo, e il musicista. Il nitore stagliato della tromba di Clifford Brown gli sopravvivrà, almeno per sprazzi, nell’opera dei trombettisti che vengono dopo di lui, e che studiano con attenzione spasmodica ogni suo fraseggio, ogni passaggio degli assoli: gente come Kenny Dorham, Lee Morgan, Blue Mitchell, quella triade di hard bopper che, ognuno per la sua strada, ne continuerà la lezione. La settimana dopo il tremendo schianto Quincy Jones scrive su Down Beat: «Il nome di Clifford Brown sarà sempre sinonimo di essenza della musicalità e integrità morale. Un simbolo di quegli ideali veri che deve perseguire un giovane jazzista».

AMPLIFICATO
Negli stessi locali dove la prima generazione di bopper s’erano fatti le ossa, le unghie e i denti per affrontare il jazz più indomabile e competitivo sino ad allora apparso, e dove aveva fatto in tempo a suonare Fats Navarro, matura anche un altro jazzista da piccolo dizionario mitografico che non farà in tempo a conoscere i trent’anni: Charlie Christian. Padre fondatore, in pratica, di tutta la chitarra jazz moderna, e forse anche oltre. Anche per lui, una fiammata d’attività che brucia velocissima, come la candela accesa su due stoppini opposti dei replicanti di Blade Runner, affamati di vita e al contempo dissipatori della stessa. La vicenda biografica del chitarrista del Sud potrebbe offrire materiale abbondante per un ciclo sceneggiato, stipata com’è di avventure picaresche, di torsioni del destino, di svolte improvvise. Era nato nel 1916 a Dallas, Texas, giovanissimo era approdato nel Midwest a Oklahoma City, con tutta la sua famiglia musicale: suonavano tutti, e Charlie cresce avendo nelle orecchie il blues rurale e l’opera, le canzoni e il primo swing. Prova la tromba, poi la chitarra, che non abbandonerà più: è un talento naturale, con le sue dita lunghe, forti e affusolate, ma ben coltivato con studio e confronti nei club. Ne esce quasi sempre vincente. Quando prova i primi rudimentali pick up applicati alla chitarra di legno per amplificarla è amore a prima vista: siamo alla metà degli anni Trenta, e Christian è perfettamente consapevole, come scriverà nel ’39 in un articolo per Down Beat, di essere «all’alba di una nuova era«, perché «l’amplificazione elettrica ha dato ai chitarristi una nuova vita». Che significa possibilità di «tenere» le note a lungo, legarle con effetti mai ascoltati prima, eseguire saettanti traiettorie melodiche a note singole. Lui in più ha una conoscenza profonda dell’attacco e della riserva di trucchi sui riff dei chitarristi blues, ha molto osservato, ascoltato, studiato.
Sarebbe rimasto una piccola gloria locale, Christian, se non lo avesse notato la grande pianista Mary Lou Williams, che lo incrocia nei locali dove suonava. Williams segnalò quel ragazzo un po’ spaccone ma geniale a John Hammond, il produttore con le antenne sensibili per ogni «next big thing», e convince l’amico Benny Goodman ad andare ad ascoltarlo. Viene combinato un incontro in California ed è un disastro: Christian, conciato come un tamarro di provincia, con cappellone e scarpe a punta, non riesce neppure ad attaccare la chitarra all’amplificatore, Goodman è frettoloso e scostante.
Quando tutto sembra perduto, a sorpresa Christian viene fatto salire la sera stessa sul palco del Victor Hugo, a Beverly Hills: lì per lì Goodman rimane sbalordito, per cotanta temerarietà, poi attacca un vecchio brano che ritiene Christian non possa proprio conoscere, Rose Room. Invece il giovane chitarrista incomincia a mitragliare una serie infinita di riff incastonati uno nell’altro, ogni frase sembra riprendere un pezzo di quella precedente, e proiettarla verso l’inaudito. Christian viene assunto. Comincerà così una carriera a passo di corsa nel jazz che conta: tre referendum di fila vinti per Down Beat, nel ’39, nel ’40 e nel ’41, un posto fisso nell’orchestra di Goodman, che gli dedica anche il primo concerto per chitarra e orchestra, Solo Flight. Di giorno Christian è un perfetto musicista swing, e dai suoi riff nascono hit a profusione per Goodman, di sera il giovane texano va a annusare e provare la nuova musica frenetica, urbana ed esoterica che sta nascendo nel circuito dei piccoli club newyorkesi, il bebop. Ancora non c’è la parola per definirlo, ma al Minton’s e al Monroe, dove bazzicano Monk, Gillespie, Clarke, Don Byas e tanti altri (Christian non farà in tempo a conoscere Bird), alla notte si va avanti a oltranza: sono jam session aperte, velocissime e spietate al contempo, e per fortuna c’è quel ragazzo benestante amico di Jack Kerouac, armato di registratore che ha la mania di registrare quello che succede. Ci ha salvato così il clima informale e infuocato delle session, e l’incredibile sapienza armonica e ritmica di Charlie Christian quando non era costretto a stare nei ranghi stretti da Goodman.
A un certo punto, però, nel giugno 1941, la tubercolosi si avventa anche sul ragazzo dell’Oklahoma: che certo non migliora la situazione fumando come un circasso, e non solo tabacco, e bevendo a garganella. Goodman riesce a farlo ricoverare, ha sentito quei brutti colpi di tosse. Christian però trasforma la stanza d’ospedale in una succursale di club: whisky, signorine compiacenti, marijuana. Fughe appena possibile. Muore il 2 marzo 1942, a ventisei anni.

AUTODIDATTA
Non è un destino toccato solo a musicisti della generazione del bebop e di quella appena successiva: era successo anche ad almeno altri tre musicisti, due trombettisti, come Navarro e Brown. Veniva dalla «deep America» del Midwest come Christian anche il trombettista prototipo del «maledettismo» romantico e un po’ farlocco, nel racconto ex post, quasi il padre putativo di Chet Baker, invece sopravvissuto a lungo a tutte le sue intemperanze: si parla di Bix Beiderbecke. Era nato a Davenport, Iowa nel 1903 da immigrati tedeschi, s’era inventato da autodidatta un modo tutto suo di suonare la cornetta, cercando di emulare il suono di Nick La Rocca dei primissimi dischi di jazz, odiava la scuola e le costrizioni. E beveva molto. Un angelo biondo che giovanissimo era finito a Chicago, dove pulsava il jazz duro e puro, nei locali controllati dalle famiglie mafiose, ma il suo suono, lirico, rotondo e pensoso, con un retrogusto sempre presente di malinconica introversione si faceva notare: non assomigliava a nulla di conosciuto, forse, s’è azzardato, poteva ricordare a chi aveva buona memoria il suono di Emmet Louis Hardy, cornettista nei primi New Orleans Rhythm King, un altro da mettere nel sinistro clan dei morti prima dei trent’anni: lui se n’era andato a ventidue, senza riuscire a incidere nulla. Era nato a New Orleans, sobborgo di Gretna nello stesso anno di Bix: il 1903. Musicalità precoce, e poi una trasferta a Chicago, dove succedevano le cose: lui è una delle due cornette dei «Kings», accanto a Paul Mares. Le serate al Friar’s Inn sono incandescenti, ma per un caso maligno Hardy non parteciperà alle registrazioni dei settantotto giri. Torna invece a New Orleans , cerca di mettere su un’altra band, ma la tubercolosi è in agguato, e nel giugno del 1925 muore. Per anni gli storici e specialisti degli archivi jazz hanno cercato un cilindro in cera che Hardy avrebbe inciso quasi per gioco, ma nulla ad oggi è stato ritrovato. Poco rimane in fondo anche di un altro gigante gentile del jazz, morto ventiquattrenne nel luglio del 1942 per lo stesso motivo, la tubercolosi: il contrabbassista Jimmy Blanton. Il primo vero solista del grande legno, scoperto e valorizzato dal leggendario Duke Ellington, che lo volle nella sua band, a partire dal ’39, e a cui concesse sostanziosi spazi solistici, oltre a duettare con lui in brani che sono oggi cardini della storia del jazz e riferimenti per i bassiti. Torniamo a Bix, suo coetaneo. Anche per lui la vita è una fiammata di occasioni trovate e perdute: prima ci sono i Wolverines, poi i gruppi di Jean Goldkette e di Paul Whiteman, che lo fa diventare ricco e famoso. Sono ensemble che propongono una sorta di raffinato compromesso tra elaborata e ben orchestrata musica commerciale e jazz: modernisti ben camuffati, in sostanza. Nel Bix ’27 incide anche un paio di brani mettendo le mani su una tastiera di pianoforte, accompagnato da Frank Trumbauer e Eddie Lang, il «nostro» Salvatore Massaro. Più tardi farà uscire anche capolavoro al piano come In a Mist. Bix è un autodidatta, ma ha ascoltato con attenzione anche Debussy e Ravel. Ma Bix è segnato: dalla lacerazione continua della frattura con la sua famiglia, che nulla vuole sapere di un figlio jazzista, dalle insicurezze su sé stesso e sul valore della propria musica, che lo portano a bere sempre di più. Muore a ventotto anni nel 1931, di polmonite, il fisico distrutto dall’alcol.