Nell’aula magna che l’associazione Act Up usa per i suoi incontri settimanali (l’«RH») i neo-inscritti imparano l’abc del gruppo: è una associazione politica (non di assistenza) di malati di Aids, farne parte vuol dire dichiararsi sieropositivo (senza per forza esserlo), l’assemblea è il luogo dove (democraticamente) si decide tutto. Detto, fatto: Sophie (Adèle Haenel) fa il punto sull’ultima azione, svoltasi in un convegno governativo di lotta all’Aids. Le sue parole diventano immediatamente immagini: Sophie ha interrotto l’oratore del convegno e sta spiegando perché quando uno degli altri militanti del gruppo di Act Up, confuso dal caos, lancia troppo presto una gavettone di sangue che finisce in faccia all’oratore. Per Sophie, l’azione è controproducente. Altri pensano invece che l’incidente sia un successo. Per il film, conta mostrare la circolazione di parola e di azione.
Nella storia di Act Up, questo rifluire dell’una nell’altra viene da una tesi (che uno slogan del Gay Pride illustra): sapere è potere. Far girare l’informazione (sulle cure, sulla malattia, sulla condizione dei malati) è immediatemente un’atto politico. E parallelamente, ogni azione non è politica se non nella misura in cui diventa rivendicazione, pensiero e in ultima analisi conoscenza. Per questo colpisce senza sorprendere che il primo film figlio di quest’esperienza sia stato una commedia musicale (Jeanne et le garçon formidable di Jacques Martineau e Olivier Ducastel – un genere in cui la parola (cantata) è sempre «dichiar-azione». Ora, da questa omogeneità emerge anche una dimensione spettacolare di Act Up. Uno degli obbiettivi politici è quello di inventare una visibilità per la comunità Aids (che nei primi anni novanta, dieci anni dopo l’inizio dell’epidemia fa quasi tutt’uno con la comunità gay). La malattia, che doveva essere una tomba per tutti i diversi, viene in effetti capovolta come un guanto: diventa coscienza, lotta, rivendicazione. Questa «rivolta» contro la morte, così invertita in vitalità (delle azioni) e euforia (della militanza) può tramutarsi in erogenesi dei fini. Gli slogan devono essere incisivi, rapidi, efficaci. Perché? Perché sto morendo, perché il prossimo Gay Pride potrebbe essere l’ultimo? Oppure per funzionare in tv? Dove si passa il confine tra uso e abuso dello spettacolo?
Di questo aspetto il film è più che cosciente – ché lo eredita da Act Up e dal suo successo. E infatti Robin Campillo e Philippe Mangeot (regista e sceneggiatore, entrambi ex di Act Up) evitano di filmare il palmares politico (ampio) di Act Up. Evitano soprattutto di legarne narrativamente il percorso a quello di un singolo malato. Perché se da un lato il fatto di dichiararsi malato è un atto politico, esserlo invece non lo è (necessariamente).
In questo senso, una delle scene più interessanti del film è ad un primo sguardo la meno incisiva. Dopo un’azione, i militanti si allontanano in metropolitana. Il treno che passa sopra la Senna suggerisce a Sean un monologo poetico su come la malattia lo abbia cambiato, amplifiando le sue passioni, finito il quale si gira ridendo verso gli amici: scherzava, non c’è nulla di bello nella morte.
Ma proprio sulla questione dello spettacolo si consuma una rottura. Sean, sempre più malato, se ne va dal gruppo sbattendo la porta. Cala il sipario sulla parte politica (e sul collettivo). E si alza sul secondo atto del film, in cui seguiamo il calvario di Sean. Molti commentatori hanno trovato questa seconda parte meno riuscita (meno radicale, più consensuale). Al contrario la forza di 120 battiti al minuto (Gran premio della giuria allo scorso festival di Cannes) sta proprio nel fatto di non (limitarsi a) filmare un soggetto (la malattia), ma di costruire un problema non tanto politico ma del politico: il che vuol dire non solo chiedersi in che misura la malattia è stato un vettore della militanza (di Act Up) ma anche se in essa non si riveli un certo limite del politico.
Quello che viene a rompersi quando Sean (Nahuel Pérez Biscayart) se ne va è proprio il circolo di parola e azione. Ancora nella scena del primo rapporto con Nathan (Arnaud Valois) questo funzionava persino nel privato: il sesso era accompagnato da un discorso, l’erotico e il politico si stringevano senza ostacolarsi rifluendo l’uno nell’altro. Il clivage non è quindi personale/collettivo o intimo/pubblico. Ma piuttosto ancora e sempre parola/azione. Più Sean avanza nella malattia, più il suo essere in Act up perde di senso per lui (senza per questo che la militanza perda in assoluto di significato). Egli non può più agire politicamente (perché troppo debole). Il discorso politico gli appare ormai distante. Ogni discorso perde di senso. Il rapporto sessuale all’ospedale, è la cartina al tornasole di questa impotenza del parlato. Nathan masturba Sean, gioisamente, ma senza dire nulla. Conta oramai solo il gesto, l’urlo, il silenzio.
A propositodi parole: il film esce in Italia doppiato. E, come ogni doppiaggio, è un disastro. A quando un « Act Up » contro questa pratica che umilia e uccide l’arte?