Quattro statuette, le più importanti, e un primato, l’Oscar al miglior film consegnato per la prima volta in 92 anni a un’opera di lingua non inglese, che parla di lotta di classe, col suo regista che emozionatissimo «minacciava» di dividere il premio insieme agli altri (da lui) amati concorrenti, suoi maestri dichiarati, Tarantino e Scorsese, impugnando la sega elettrica dell’omonimo «massacro».
E se la vittoria di Bong nella categoria del miglior film internazionale era quasi certa, così come negli ultimi giorni aveva preso sempre più consistenza quella nella miglior regia – meno scontata la sceneggiatura originale – la conquista del miglior film è stata una sorpresa, nella stessa categoria lo scorso anno non ha trionfato neppure Roma, nonostante Cuarón sia un regista presente nel sistema hollywoodiano, premiato già in precedenza con la statuetta (Gravity).

Al di là dei primati la vittoria di Parasite è anche uno dei (pochi) segnali di vitalità in un’edizione che rischiava fino all’ultimo di celebrare il tronfio virtuosismo sammendesiano di 1917 scambiato per sublime gesto cinematografico con quelle stessa attitudine che ha preferito la «mimesi» da Actors’ studio maldigerito di Renée Zellweger in Judy alla precisione sentimentale di Scarlett Johansson in Storia di un matrimonio – uno dei film dell’anno messo da parte dall’Academy se si esclude la statuetta per l’attrice non protagonista alla stupenda Laura Dern.

Anche l’Oscar a Joaquin Phoenix per Joker risponde un po’ alla stessa logica di quello a Judy, più passa il tempo e più appare chiaro che il film di Phillips premiato alla Mostra di Venezia è costruito (e esiste) soprattutto nel corpo del suo protagonista. Ma che importa, lui è un attore meraviglioso, commuovente nel suo ringraziamento vegan – e nelle lacrime per il fratello River – e non si può che essere felici per questo Oscar che li contiene tutti i suoi personaggi, persino lo stralunato investigatore in Vizio di forma (capolavoro) di P.T. Anderson.

In controcampo – non nel valore ma nello stile interpretativo – c’è la statuetta al Brad Pitt «spalla» di Leo di Caprio in C’era una volta a … Hollywood, che dosa la sua interpretazione sottraendo, con la leggerezza di chi manovra la performance controllando ogni millimetro di muscolo e emozione. È questo anche uno degli unici riconoscimenti al film di Tarantino che nonostante le molte nomination come The Irishman di Scorsese è rimasto fuori dal palmarés. I due film sono affini, entrambi attraversati da un sentimento di nostalgia per una Hollywood (un cinema?) che non esiste più: Scorsese alla prima persona, Tarantino più giovane di «riflesso».

È questo che non è piaciuto? Forse il cinema mondiale nel paesaggio di un mercato – e di un’industria – che cambiano velocemente, con l’arrivo delle piattaforme che hanno obbligato a nuove regole ha bisogno di altro, di una forma capace di confrontarsi col mondo in profondità, al di là della retorica che accompagna certe rivendicazioni, rivelatesi fin troppo pretestuose? – molto dice sul tema l’Oscar ai costumi per Piccole donne dopo le polemiche per la sua mancata nomination nella categoria della miglior regia, utilizzate strumentalmente nella discussione sulla cronica assenza di registe dall’industria cinematografica.

Parasite è un film capace di parlare al presente, che esiste nel nostro tempo senza per questo esserne la semplice cronaca, che utilizza i generi per tracciare la verticalità globale dei nuovi capitalismi mischiando con impertinenza commedia, horror esistenziale, risata, amarezza, politica, biologia. «La coabitazione tra ricchi e poveri è un dato di fatto nel mondo attuale, e diventa sempre più evidente che le politiche sociali e le economie globali spingono perché la cesura continui a crescere. Si prefigura un modello di società con pochi ricchi da una parte e molti poveri dall’altra nella quale il concetto novecentesco di ’classe’ è superato dalla ricchezza in sé. Nel film provo a mostrare le difficoltà che esistono in questa ’coabitazione’» ci diceva Bong al Festival di Cannes – dove aveva già «battuto» conquistando la Palma d’oro Tarantino.

Dunque? Le quattro statuette a Parasite possono essere un’indicazione del futuro? Forse. Di certo dichiarano l’esigenza di un passo diverso, premiano un cinema politico nell’invenzione di sé stesso, dei suoi spazi, di quell’alto/basso di esterni e interni come figura per capovolgere anche le regole dell’immaginario. Una magnifica promessa.