Pochi mesi fa, la retrospettiva alla Cinémathèque di Parigi è stata oggetto di furiosi attacchi da parte di alcuni gruppi femministi, a cui si è aggiunta anche la voce del ministro del governo Macron della famiglia, Laurence Rossignol, – una carica istituzionale – dicendo che non avrebbe mai guardato un film di Roman Polanski. «Lo stupratore» sottinteso, con riferimento alle accuse di violenza sessuale nei confronti di Samantha Geimer, allora una ragazzina, che peraltro ha da tempo dichiarata chiusa la questione, con un complicato iter giudiziario mai risolto che da allora impedisce al regista di tornare in America.

Il movimento #Me Too, seppure chi lo vuole trasformare in una macchina «celibe» giustizialista non ha mancato di attaccare Polanski, non c’entra: è che ogni volta che si parla di lui c’è qualcuno che insorge, almeno in Francia, pensiamo alla cerimonia dei Césars dello scorso anno, il suo invito, poi da lui stesso declinato, aveva scatenato un putiferio.
Sono passati quarant’anni, e tutti coloro che vi erano coinvolti – appunto – hanno chiesto ripetutamente di chiudere una vicenda rimasta poco chiara (il regista non ne ha mai parlato) ma soprattutto: deve un’opera scontare sempre e comunque una qualche condanna? Il film di Polanski era lo scorso anno a Cannes, il miglior titolo, fuori concorso e l’ultimo giorno, di una selezione «medio-bassa» , dimostrando che coi suoi 84 anni è sempre un grande maestro e a differenza di altri magari più giovani e noiosamente formattati, capace di mantenere la leggerezza di chi sa mettersi in gioco.

D’après une histoire vraie – in Italia Quello che non so di lei – è un film radicalmente polanskiano, per certi aspetti quasi un sequel tra le sue «ossessioni» per la creazione letteraria – o il gesto artistico della creazione in assoluto – esplorate altre volte ( The Ghostwriter); una variazione senza ripetersi col piacere di lasciarsi portare da una macchina da presa in un paesaggio dell’immaginario che non cerca l’umiliazione a ogni costo dei personaggi e dello spettatore solleticandone col «grande tema» la partecipazione compiaciuta al gioco al massacro.

All’origine c’è il romanzo di Delphine de Vigan che Polanski ha riletto nella sceneggiatura scritta insieme a Olivier Assayas in un campo controcampo tra due donne (da Assayas esplorato in Sils Maria): Delphine, scrittrice all’apice del successo dopo l’ultimo libro, una storia molto personale, ispirata alla madre suicida. E Elle – come il personaggio di Verhoeven – una donna più giovane, enigmatica, perfetta anche alle sette del mattino, che la adora. Piano piano Elle entra nella vita della scrittrice, diviene la sua confidente, il suo sostegno in quel momento di fragilità che precede l’inizio di una nuova creazione.

Delphine è spaventata dal peso dei suoi lettori – l’inizio è una galleria di facce, deformate che si avvicinano per farsi firmare una copia del libro – dalle lettere anonime che l’accusano di avere cannibalizzato la sofferenza della madre, e per questo ha deciso di scrivere un libro tutto di finzione, lontano dalla sua esperienza.
Anche Elle scrive, ghostwriter di biografie dei personaggi famosi, vorrebbe invece che Delphine finisse il suo «libro segreto», ispirato ai ricordi intimi, alle sue sofferenze. La realtà è quello che interessa il pubblico, le ripete, ma per l’altra ciò che conta è invece la narrazione. I legami si rafforzano, Elle «diventa» Delphine, si veste come lei, risponde alle sue mail, vive a casa sua, mentre scrive la biografia di una annunciatrice televisiva molto nota, e il romanzo di Delphine dovrebbe raccontare il mondo del reality show…

A affrontarsi in questo doppio ci sono Emmanuelle Seigner, versione dimessa, e Eva Green, la dreamer di Bertolucci poi Bond-woman che Polanski trasforma in una macchina horror: occhi sgranati, facce da pazza, scatti di ira, spaventosa presenza immateriale che forse non esiste, che forse è solo la proiezione letteraria di una nuova storia.
Che poi lo spettatore creda a questa possessione dell’una sull’altra poco importa, anzi la sua natura «irreale» è quasi esplicita. Ma a che punto ci si può spingere, quale è il limite tra l’autore e il suo personaggio, tra la realtà e la sua rappresentazione? Polanski conduce la sua riflessione con autoironia, dal noir delle stanze chiuse dell’appartamento elegante di Delphine all’horror persino splatter nella casa di campagna del suo uomo, ne punteggia i passaggi di riferimenti e citazioni. Per dirci che la verità come la vita dell’artista è sempre nella sua messinscena, nulla sarà mai più forte.