Può davvero dare ancora un brivido incontrare oggi Lucinda Childs, bella, lucida, scattante come quarant’anni fa, quando da giovane danzatrice newyorkese, severa nell’allenamento ma curiosa del nuovo, praticava i grandi coreografi della tradizione ma frequentava anche Merce Cunningham e John Cage. E si trovò al centro di una creazione destinata a fare epoca, Einstein on the beach. Un punto di svolta dell’opera contemporanea, rimasto un archetipo di ogni nuova creazione musicale. Bob Wilson era già ben noto, ma la sua ricerca sul tempo e sullo spazio (e sulla luce e sull’immagine, che aveva una immediata ricaduta sulla percezione stessa da parte dello spettatore), veniva da una serie estenuante di prove e ripetizioni cui si dedicava lui stesso, assieme al suo allievo prediletto Christopher Knowles, come qualcuno ebbe la fortuna di sbirciare alla mitica Contemporanea nel parcheggio sotto villa Borghese.

Ma quando Wilson, giunto rapidamente a grandiosa maturità artistica, decise di «fare un’opera» complice la genialità iterativa e minimale del suono di Philip Glass, cercò chi potesse dare ordine e senso al movimento. Si rivolse a quella giovane danzatrice, capace di organizzare gesti e tempi di una danza che reinventava il pensiero e l’esistenza. Era la metà degli anni 70, la ricerca artistica pullulava di qua e di là dell’Atlantico con una densità straordinaria, che nel ricordo lasciano quel decennio come il cuore fertile dell’invenzione, forse mai eguagliato dopo.

E subito dopo il debutto ad Avignone, quell’Einstein on the beach segnò, alla Fenice di Venezia, il prima e il dopo del grande spettacolo, una sorta di cesura di gusto e consapevolezza tra chi l’aveva visto e chi no, la grande insegna luminosa e linguistica della Biennale diretta in quegli anni per teatro e musica da Luca Ronconi, che l’opera aveva coprodotto. Un vero capolavoro, dove il candore di Lucinda brillava e confliggeva con lo sguardo tagliente della nera Sheryl Sutton mentre si lanciavano reciprocamente una serie di numeri a caso. E rendeva «movimento» la partitura ipnotica di Glass, e la visione dilatata eppure claustrofobica di Wilson.

Nei giorni scorsi Lucinda Childs è tornata a Venezia, a ritirare il Leone d’oro della Biennale. Ma chi si aspettava una «antica gloria« dal brillante passato, ha avuto la sorpresa della sua energia, della sua lucidità, e della sua bellezza. Ha appena compiuto 77 anni, e dietro i grandi occhiali traluce l’intelligenza e la consapevolezza di sempre; una sorta di eredità morale, e di arte e di pensiero, maturata in tutti questi anni. Passati sempre a frequentare artisti importanti, dal lungo sodalizio con Susan Sontag al genio visivo di Sol Lewitt con cui, nel 1979, creò assieme a Philip Glass il meraviglioso Dance mostrato ora alla Biennale, incrocio di visioni proiettate che moltiplicano e scandagliano il movimento dei giovani danzatori eredi della perfezione di lei. Che ancora oggi si schernisce, piena di senso pratico e di lucidità di intenti, nel rivendicare la magnifica ossessione del rigore che nell’apparente ripetitività trova una forza indomabile.