Raccontare un autore, la sua arte, il suo universo senza sottrarsi alla richiesta di mettere in gioco il proprio punto di vista può essere un’ «impresa» molto rischiosa , anche se supportata da generi consolidati – la biografia, il testo critico, il saggio specifico – che sembrano però lasciare sempre fuori qualcosa dal quadro. Specie se poi si tratta di figure «fuori norma», la cui opera si oppone consapevolmente alle classificazioni e invece mescola con impudenza le infinite possibilità degli immaginari.

È questo che viene in mente dalle primissime righe (o forse già dal titolo) di La possibilità della gioia (Edizioni Clichy, pagine 122, euro 18), in cui Gianni Manzella, critico (lo abbiamo letto infinite volte su queste pagine), saggista e – come si definisce lui stesso «studioso indisciplinato del teatro vivente» – ripercorre il teatro (e molto altro) di Pippo Delbono. Una magnifica eccezione a ogni regola questo libro in cui l’avventura del protagonista, le sue giravolte dentro e fuori la scena, scorrono all’interno di una relazione coltivata negli anni tra l’artista e l’autore del libro di studio e di amicizia in cui confluiscono passioni e scoperte reciproche. E questo senza che Manzella pure con l’uso della prima persona, e di annotazioni, detour, ricordi, sovrasti mai con la sua presenza colui del quale sta scrivendo. Perché ciascuno di questi elementi è lì in quanto rimanda al mondo di Delbono, alle sue grida di amore e rabbia, alle sue danze goffe, alle persone che lo accompagnano, a un vissuto che si mischia visceralmente con la sua arte.

La scrittura che scorre fluida, appassionata, si fa narrazione restituendo la forza e il fascino di questa storia artistica (o delle molte che la compongono). Ci sono le analisi delle singole opere (con un’attenta teatrografia e filmografia), che viaggiano nell’arco di decenni, da Il tempo degli assassini (1987) a Orchidee (2013) passando per «l’intermezzo» di un viaggio in Palestina dove i bambini, ascoltando Pippo che parla di Pasolini e di libertà gli chiedono cosa sia, la libertà che loro non hanno mai conosciuto. E ci sono le intuizioni teoriche dell’autore del libro, lo spazio – appunto – in cui si mette gioco, lo fa con delicatezza, senza mai forzare, procede per tentativi, tra partenze e possibili approdi lasciando aperto il suo orizzonte.

Ciò che cerca (e ci propone pagina dopo pagina) è appunto un dialogo con l’opera e con l’ artista mai assertivo per egonarcisismo (come tanta fastidiosa critica formato social oggi) che diventa una ricerca personale di suggestioni e complicità, e al tempo stesso una riflessione sul Novecento (non solo teatrale) e sul significato nel nostro tempo di contemporaneo.

Da Zagabria, con la scoperta di uno strano museo delle relazioni infrante al rum della Martinica: un viaggio come l’arte di Delbono, la sua poesia del dolore e del vissuto, la sua grazia leggera di aprirsi all’altro.