Cali situata a circa 1000 metri sul livello del mare è la seconda città per grandezza in Colombia, per il cinema però rimane forse uno dei luoghi più importanti dell’intera America Latina. Nel 1971 arrivano a Cali i giochi Pan-americani, manifestazione che nel bene e nel male cambierà per sempre il volto della città, da un lato le grandi infrastrutture e gli eventi ad essa legati e dall’altra il popolo che ancora vive in miseria e che resta inevitabilmente tagliato fuori dai grandi giri di denaro che ruotano attorno ai giochi. Questa disparità non fa che funzionare da coagulante per le forze creative e rivoluzionarie delle nuove generazioni di artisti che da quel momento in poi, come risvegliate ed animate da una puntura tanto dolorosa quanto vitale, per più di due decenni cambieranno il volto del cinema indipendente, ma non solo, colombiano e latino americano. Si tratta nel particolare del Grupo de Cali, una variegata messe di artisti operativa dai primi anni settanta soprattutto nel cinema e nella scrittura e che avevano come luoghi di aggregazione il Cali Cine Club, la rivista cinematografica Ojo al cine e la comunità artistica Ciudad Solar, dove vivevano dividendo le proprie vite quasi tutti i membri di questo collettivo artistico.

 
Fra i protagonisti di questo gruppo, che prima di tutto era un gruppo di amici e che solo più tardi fu denominata dai giornalisti Grupo de Cali, ricordiamo almeno Carlos Mayolo, Andrés Caicedo, Hernando Guerrero e Luis Ospina.

 
Proprio quest’ultimo ha completato quest’anno il suo ultimo lavoro, Todo comenzò por el fin (Tutto cominciò alla fine), un fluviale documentario dalla lunghissima gestazione, un lavoro con il quale Ospina riflette e ripercorre le tappe ed i motivi della nascita del gruppo. Il film, che è stato presentato all’ultimo festival di Toronto e al Yamagata International Documentary Film Fest in Giappone, spalanca una porta su un mondo a livello internazionale non troppo conosciuto ma meritevole di (ri)scoperta. Un universo artistico ricco di creatività e animato da spinte rivoluzionarie che, al di là del caso particolare colombiano e sudamericano, ha il pregio ancora oggi di illuminare molte problematiche e tendenze legate al cinema collettaneo ed indipendente tout court.

 
Davvero una cavalcata attraverso i decenni, un turbine dove più di qualcuno si è perso, uno dei membri del gruppo fra i più creativi ed attivi, l’attore e regista Mayolo, è infatti scomparso qualche anno fa dopo una vita tutta tirata da alcol e droghe. Il documentario comincia proprio dalla fine, dalla malattia che ha colpito Ospina quando ancora stava lavorando al progetto, in ospedale le scene girate di nascosto col cellulare lasciano poi il posto a molto materiale d’epoca inedito, footage in 16millimetri, interviste in digitale fatte nel corso dell’ultimo decennio anche con amici ora scomparsi, scene di una cena fra gli ex-membri del collettivo, ma anche spezzoni dalle opere girate da Ospina, Mayolo e compagni negli anni che vanno dal 1971 al 1991.

 
La prima parte della pellicola si sofferma sugli inizi e sulla comunità di persone che orbitava attorno alla Ciudad Solar, edificio punto d’incontro per la vita artistica di Cali nei primi anni settanta, comunità che era focalizzata sulla persona di Andrés Caicedo, scrittore di fama postuma (i suoi libri sono tradotti anche in italiano) poi suicidatosi a soli venticinque anni nel 1977: dolore, depressione ma anche un senso del collettivo e di amore libero che era magnificato dall’uso di sostanze ed in genere da una predisposizione all’apertura tipica del periodo.

 

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La seconda parte del lavoro si focalizza più sull’elemento cinematografico del gruppo, fra le opere citate e mostrate nel documentario che più sono interessanti, e proiettate fra l’altro anche a Yamagata in presenza dello stesso Ospina, figurano il debutto di Ospina, Oiga, Vea! un corto girato in occasione dei già citati giochi Pan-americani del 1971, opera ricca di ironia che critica la struttura classista della manifestazione stessa. Una vera sorpresa per chi scrive è stato assistere alla proiezione di The Vampire of Poverty, un documentario/mockumentario ante litteram, realizzato nel 1978 da Mayolo e Ospina dove lo stesso Mayolo interpreta un regista senza scrupoli impegnato a girare un documentario sulla povertà di Cali. Un piccolo capolavoro, con le scene che si alternano fra il colore ed il bianco e nero per indicare il falso documentario ed il «vero documentario», un sarcasmo tagliente indirizzato verso il mondo del cinema politico stesso, quello per partito preso ed acritico, che valse ai due colombiani un ostracismo da parte di molto cinema marxista e di sinistra latino americano dell’epoca.

 
The Vampire of Poverty è nelle parole dello stesso Ospina «un film anarchico» ancora tremendamente moderno e che è in fondo una feroce critica di quella che Ospina definisce porno-miseria, il cinema che usa(va) la povertà delle classi più indigenti per attuare la propria agenda e dimostrare le proprie tesi, problematiche più che mai attuali anche nella nostra contemporaneità-reality dove la realtà ed i fatti sembrano esser diventati l’ultimo feticcio.

 
Una scelta da parte dei membri del gruppo, su cui vale la pena di soffermare l’attenzione, è che decisero di non sposarsi e di non avere figli, di rinunciare volontariamente alla famiglia, continuando quindi anche superati i 30 e 40 anni a dedicarsi alla loro arte e produrre con i ritmi ossessivi della gioventù. Una scelta che probabilmente permise loro, anche durante gli anni ottanta quando «in Colombia» – sempre parole del regista – «tutto stava cominciando a crollare» fra il narco traffico, i cartelli, Escobar e la violenza, di non intaccare l’indipendenza del gruppo che si estese anche al medium televisivo.

 
Ospina oltre a film abbastanza conosciuti come Pura Sangre (1982) realizzò infatti per il piccolo schermo molti documentari, mentre Mayolo telefilm o opere dal taglio sperimentale, in un paese dove la media qualitativa erano, e sono ancora, le telenovelas, la cosa ha quasi del miracoloso.

 
Todo comenzò por el fin è oltre a tutto quanto scritto anche un’opera che ha il pregio di non prendersi troppo sul serio e cadere nella fatale nostalgia dei tempi perduti, spesso gli intervistati ironizzano su sé stessi ed il modo in cui il lavoro è costruito non è per niente banale. Il documentario infatti è sia quasi un sunto dei vari modi del cinema non-fiction, home video, sperimentazione, interviste, materiale d’archivio, documentario poetico sia dei mezzi in cui esso può trovar forma, digitale, pellicola, bianco e nero e colore. Un’ultima nota solo per dire che molti dei lavori di Ospina si possono vedere gratuitamente e legalmente sulla sua homepage luisospina.com.