Quando i negozi di abbigliamento riapriranno, bisognerà pensarci bene prima di tornare ad acquistare un pantalone, una gonna o una camicia che solleticano il nostro desiderio di seguire la moda.

Soprattutto, bisognerà considerare a chi vanno i nostri soldi. Se fino a ieri dietro a certi capi poteva esserci uno sfruttatore, con l’arrivo della pandemia c’è anche l’abbandono dello sfruttato.

Da quando è iniziata l’emergenza Covid-19, Clean Clothes Campaign, network che dal 1989 si batte per migliorare le condizioni di lavoro nell’industria globale dell’abbigliamento, monitora attraverso un blog ciò che accade giorno per giorno nel mondo dell’industria del tessile e delle confezioni.

CI SONO grandi catene che per vendere da noi capi a medio/basso costo (quasi sempre di equivalente media/bassa qualità) li fanno produrre in paesi dove il lavoro costa un’inezia. È un sistema che fa utili basandosi su un doppio sfruttamento: quello di lavoratori disposti a tutto per sopravvivere, quello che soddisfa piccoli desideri di altri lavoratori alle prese con salari stiracchiati.

Nelle fabbriche del Myanmar, Bangladesh, Pakistan, Cambogia, Indonesia, Thailandia, India sono soprattutto le donne a tagliare e cucire quello che noi indossiamo e spesso lo fanno senza tutele né le basilari norme di sicurezza.

I colossi del fashion realizzano così margini di guadagno per nulla marginali. Per fare un esempio, la Inditex (che controlla fra gli altri i marchi Zara e Mango) nel 2018 ha generato una cifra d’affari di oltre 26 miliardi di euro, nei primi 6 mesi del 2019 dichiarava un utile netto di 1,55 miliardi con un aumento del 10% rispetto all’anno prima.

Ma ci sono anche H&M, PVH (Calvin Klein, Tommy Hilfiger, Heritage Brands), Mark and Spencer, Next, Tesco, Sainsbury’s, Asda, (controllata da Walmart) Asos, Boohoo, Primark, C&A.

CHE COSA hanno fatto tutti questi giganti appena è arrivata la crisi della pandemia e sono stati costretti a chiudere i negozi? La cosa più facile per il loro business: annullare ordini, non ritirare merce già prenotata, acquistarla imponendo ribassi vergognosi.

In un articolo del 3 maggio, il Daily Star ha denunciato come gli acquirenti stiano imponendo condizioni capestro secondo un principio riassumibile con «Tu muori, noi viviamo». Nel pezzo si dice che la britannica Debenhams vuole pagare solo 7 dei 27 milioni di dollari che dovrebbe a 35 fabbriche del Bangladesh per la merce già ritirata. Le conseguenze sono: fabbriche produttrici insolvibili, licenziamenti collettivi, salari non versati. Public Eye, ong con sede a Losanna che da 50 anni combatte le cause della povertà nel mondo, lancia un appello, sottoscrivibile sul sito, a tutte le imprese della moda e ai grandi rivenditori di non scaricare il peso della crisi sanitaria sulle operaie che stanno alla base della loro catena di approvvigionamento. Domandano di non annullare gli ordini, che le lavoratrici non siano licenziate, che i salari vengano regolarmente pagati, che le norme sanitarie siano rispettate sui luoghi di lavoro e che, quando la pandemia sarà finita, si smetta di sfruttare i poveri per fare profitti.

La nostra piccola vanità può decidere la sussistenza di una persona. C’è qualcosa di profondamente sconcio in ciò. Qualcuno si dirà: «Non è colpa mia, ma del sistema. Io sto solo scegliendo una maglietta».

Già, ma un sistema è fatto di granelli, tanti granelli fanno tanta polvere, tanta polvere fa una montagna e quindi la nostra maglietta fa parte dell’ingranaggio. Sarebbe meglio avere meno magliette, ma migliori. Anche i nostri armadi ne sarebbero felici.

H&M ci scrive

Gentile Dott.ssa Mianiti,

sono Francesca L’Abbate, Responsabile della Sostenibilità di H&M Italia, le scrivo in relazione all’articolo a sua firma pubblicato oggi sul manifesto, dal titolo: “La maglietta made in, tu muori io vivo”.

Ci preme sottolineare che l’articolo pubblicato riporta un quadro erroneo e non obiettivo e pertanto lesivo dell’immagine della nostra Azienda. Ci dispiace molto di non essere stati contattati per poterle fornire la nostra posizione.

Le chiediamo cortesemente di pubblicare quanto segue a rettifica dell’articolo sopracitato:

La rapida diffusione del COVID-19, a livello globale, ha causato una situazione straordinaria per le persone, le comunità e le imprese di tutto il mondo. Naturalmente ha avuto anche un enorme impatto su milioni di lavoratori dell’abbigliamento in Paesi fortemente dipendenti dall’industria tessile.

H&M Group sta lavorando intensamente in tutte le funzioni aziendali per gestire la situazione nel miglior modo possibile, dal punto di vista delle persone, del business e dell’ambiente.

H&M riconosce la propria responsabilità nei confronti non solo dei fornitori di abbigliamento e dei lavoratori del settore, ma anche dell’industria tessile nei Paesi in cui produce da molti anni.

Siamo ben consapevoli del fatto che i fornitori e gli addetti alla produzione di capi d’abbigliamento sono estremamente vulnerabili in questa situazione.

Continueremo a valorizzare il rapporto con i nostri fornitori, ma in questa situazione estrema dobbiamo rispondere rapidamente e prendere decisioni che possono essere difficili a breve termine, ma necessarie a lungo termine. A questo punto, è necessario mettere temporaneamente in pausa i nuovi ordini e valutare i potenziali cambiamenti sugli ordini effettuati di recente. Ricominceremo a piazzare ordini non appena la situazione lo consentirà.

In merito al pagamento dei prodotti già realizzati, rispetteremo i nostri impegni nei confronti dei nostri fornitori prendendo in consegna i capi già prodotti e le merci in produzione. Naturalmente pagheremo per questi prodotti (inclusi i materiali) e lo faremo secondo i termini di pagamento concordati. Inoltre, non negozieremo i prezzi sugli ordini già effettuati.

Data la situazione in continua evoluzione e l’incertezza che noi, come azienda, e il mondo intero stiamo affrontando, vogliamo essere chiari e trasparenti nei confronti dei nostri fornitori. Continueremo ad avere un dialogo stretto e aperto con loro, sui piani a breve e lungo termine

Aziende come la nostra svolgono un ruolo chiave in molti paesi in via di sviluppo, così come nel commercio globale. L’industria tessile contribuisce alla crescita economica, all’occupazione e alla stabilità nei Paesi produttori tessili. La situazione attuale lo rende ancora più chiaro. Siamo in stretto dialogo con diversi partner e stakeholder dell’industria, il nostro obiettivo è quello di trovare una soluzione comune all’industria. In questo caso stiamo indagando intensamente su come possiamo sostenere Paesi, società e individui dal punto di vista sanitario e finanziario. In questa prima fase urgente, concentreremo i nostri sforzi sui Paesi che dipendono fortemente dall’industria tessile. Speriamo di essere in grado di comunicare di più in merito a queste iniziative entro breve tempo.

Un cordiale saluto,

Francesca L’Abbate

(richiesta pubblicata on line il 12 maggio 2020, ndr)