Un semplice accostamento all’interno della programmazione televisiva può ravvivare un dato storico già noto, ridandogli forza e peso. Il 28 e 29 aprile Rai5 ha omaggiato il Festival di Salisburgo, una delle più importanti kermesse di musica classica e operistica al mondo che nel 2020 ha compiuto cento anni, mettendo in palinsesto Salome ed Elektra di Richard Strauss. Entrambe le opere sono state dirette da Franz Welser-Möst, la prima nel 2018 con la regia di Romeo Castellucci, la seconda nel 2020 con la regia di Krzysztof Warlikowski. Due pezzi del teatro musicale di inizio Novecento che, mentre testimoniano il progressivo sfaldamento della tradizione operistica occidentale e del sistema tonale, ci fanno assaggiare una parte dell’inesausta esplorazione del femminile compiuta da Strauss usando figure archetipe e appoggiandosi alla scrittura di autori forti: qui Oscar Wilde, che rielabora la Bibbia, e Hugo von Hofmannsthal, che riscrive la tragedia omonima di Sofocle. Due opere contigue, composte rispettivamente nel 1905 e nel 1909, che sono come le due tavole di un dittico in cui Strauss, dopo un paio di cimenti (pseudo)wagneriani con tanti personaggi e storie multiple (Guntram e Feuersnot), mette a punto due universi chiusi attorno alle giovani protagoniste alle prese con la loro sessualità: estroversa, manipolatoria e omicida quella di Salome, implosa, allucinatoria e suicida quella di Elektra.

EROS RICERCATO ossessivamente ed Eros ossessivamente negato. Ripetizione narcisistica e rimozione incestuosa. Thanatos agente di distruzione capricciosamente invocato per vendetta e Thanatos agente di autodistruzione angosciosamente invocato per esaudire un irrefrenabile “cupio dissolvi”. Insomma Salome ed Elektra si presentano come le tappe essenziali di un unico percorso di ginecologia, ovvero letteralmente, usando parole care a Sigmund Freud, il cui fantasma aleggia su entrambe le opere, due casi clinici esemplari di isteria femminile. Tutta questa materia strepitante e sanguinolenta da sempre spinge direttori d’orchestra e registi (e con loro scenografi, costumisti, light designer ecc.) a osare sul fronte di un’espressività che sembra essere invocata dallo stesso espressionismo disinibito della scrittura letteraria e musicale dei testi, ma che a volte produce ingorghi di effetti, simboli, sottolineature. Welser-Möst, che ha una lunga familiarità col teatro straussiano, sceglie due linee di direzione opposte: trattiene, sfuma, imbavaglia il più possibile Salome, cosicché la scena della danza dei veli e il finale si stagliano con forza dirompente sul resto della partitura; spinge, scolpisce e libera laddove è possibile Elektra, percorsa da movimenti tellurici alternati, culminanti nella danza finale. I due cast sono vari e interessanti: a fare da ponte tra l’uno e l’altro il soprano lituano Asmik Grigorian, qua Salome, là Chrysothemis, che rapisce con la sua capacità di identificazione attoriale di cinematografica intensità. Castellucci e Warlikowski fanno del loro meglio per riempire lo spazio immenso e disorientante del Felsenreitschule, il vecchio maneggio cittadino, manipolando i testi, inoltrandovisi per folgorazioni, spianando nodi drammatici, impiantandovi strati di segni più o meno coerenti, col risultato che lo spettatore talvolta si perde, poi si ritrova, sempre a bocca aperta (per stupore o sdegno) davanti a «foreste di segni che lo osservano con sguardi [non sempre] familiari» e che lo fagocitano in un teatro che aspira ancora ad essere rito iniziatico, cerimonia ermetica, suggestione fine a se stessa.