Con una serie molto fitta di spettacoli dal vivo si è aperto il nuovo Napoli Teatro Festival d’Italia. Un calendario molto denso, con decine di titoli condensati in questo mese di luglio in spazi diversi distribuiti e appositamente allestiti per tutta la città (in centro e in periferia, e perfino fuori e in altre città, essendo il massimo sponsor l’ente regionale, il cui presidente De Luca va alle elezioni tra due mesi), tutto per ora riservato alle compagnie italiane, mentre quelle straniere sono previste in una ulteriore sessione tra settembre a gennaio, punta di diamante il greco Dimitri Papaioannu che proprio qui fece la sua prima apparizione italiana, e altre presenze di livello come Jan Fabre.

DIVISO in innumerevoli sezioni e sottosezioni (e mostre e luoghi di dibattito), il festival, diretto per il quarto anno da Ruggero Cappuccio, ha messo subito in vetrina le sue presenze di pregio, nuove o rinnovate produzioni con elementi di interesse forti: per gli interpreti, i titoli, le regie. E il successo, dalle postazioni distanziate del pubblico (e in linea con tutti i protocolli), è stato immediato nella risposta e nel gradimento. Anche perché l’ingresso al tramonto in certi luoghi, antichi ma non correnti nelle frequentazioni, è già una emozione naturale per ogni spettatore: prima ancora che inizi lo spettacolo, e dove le sedie disseminate dal Covid entrano quasi a far parte del rito (in maniera diversa e meno crudele, forse, di quelle lasciate vuote nei teatri al chiuso).

NEL FAVOLOSO (in senso letterale) castello di Capodimonte, in alto sopra la città, Silvio Orlando compie una sorta di magia rovesciata. Sul filo del romanzo famoso di Romain Gary La vita davanti a sé (pubblicato sotto pseudonimo, e premiato col Goncourt, nel 1975 dallo scrittore, cinque anni prima del suicidio spettacolare che seguì di un anno quello della ex moglie Jean Seberg, mitica A bout de souffle godardiana) l’attore riscrive e ricrea la storia di Momò, bambino affidato alla banlieue di formazione tra prostitute ed emarginati di ogni genere, che scopre e crea una propria matura umanità, attaccato al filo affettivo dell’anziana maitresse cui è stato affidato. Una scoperta del mondo, e del suo bene attraverso il male, che Orlando non si limita a raccontare, ma interpreta e fa sua. Dimostrandosi, oltre che l’ottimo attore che conosciamo, anche abile drammaturgo e sensibile creatore di emozioni che si espandono dalla scena al mondo. Gesti, voci, canzoni di un attore che si fa piccolo piccolo, come grande artefice di commozione. E attorno a lui, dietro la casetta infantile rifugio e «prigione» della creatura, quattro fantastici musicisti danno tempi e ritmi ai sentimenti del racconto e degli spettatori. Una bella serata, nata mezzo secolo fa, e che sembra scritta oggi, che quelle banlieue materiali e interiori si sono allargate a mondo.

ALTRO CORTILE, ma di altrettanto pregio, quello delle Carrozze a Palazzo Reale, tra il San Carlo e il Plebiscito. E dove ci si addentra Nella solitudine dei campi di cotone, testo famoso di Bernard Marie Koltés consacrato al successo mondiale da Patrice Chéreau che ne fu regista e interprete con Isaac de Bankolet. Un dialogo tra due uomini, un venditore e un compratore, di qualcosa di illecito, che non si dice cosa sia, sesso o droga o forse l’anima, in un luogo senza identità di cui è tangibile la pericolosità (se non altro mentale). Andrea De Rosa spiazza le attese e le legittime curiosità, trasformandoli in una creatura maschile e una femminile (anche se genere e relazioni grammaticali restano quelli originari), lui con un cappottaccio lei con un delizioso abito di altri secoli (come assolutamente contemporanee d’altra parte risuonano le Variazioni Goldberg che Glen Gould ci ha reso familiari).

UN DIALOGO serrato e fiammeggiante, crudele quanto essenziale. Lino Musella è strepitoso a moltiplicare dubbi e interrogativi, Federica Rosellini brava come sempre (anche nello spiazzamento di generi e ruoli). Anche se, a dire la verità, quell’abito e la grazia del suo furore, sembrano rimandare piuttosto alle storiche Liaisons dangereuses, benché il bisturi di Choderlos de Laclos appare oggi a noi meno crudele e affilato di quello di Koltés.