Accade, nei giorni che precedono l’inaugurazione della Biennale di Venezia, di sentirsi già satolli, vittime di una disfunzione da bulimia. Il titolo della 55/ma Mostra internazionale, curata da Massimiliano Gioni, poi, non aiuta di certo: Palazzo enciclopedico. Sarà faticosissimo stargli dietro, dunque. Però poi capita di ascoltare le parole del direttore quarantenne e di venire a patti con il suo entusiasmo. A una manciata di giorni dal vernissage, non è rimasto schiacciato dalla potenza di un monumento in fieri che vorrebbe archiviare il mondo e proiettarlo oltre la terra, verso il cielo. Crede fermamente nel suo progetto anomalo e appare consapevole anche del fatto che non mancheranno i tiri incrociati in Laguna. Ma lui è abituato a fare da bersaglio, la sua palestra è stato con Maurizio Cattelan. Così, non sembra affatto spaventato.

Una Biennale dal sapore antropologico…E l’arte?

Il mio lavoro ha preso come riferimento il libro dello storico dell’arte tedesco Hans Belting Antropologia delle immagini che, in sostanza, suggerisce analisi in cui le opere d’arte possono essere viste in dialogo con altre forme creative. Ai fini della mostra, significa che viene confermata un’idea che incoraggi a presentare opere d’arte più canoniche insieme ad altre prodotte da outsider e autodidatti. Ad aprire il percorso c’è la figura simbolica di Jung con il Libro Rosso: certamente non è un artista professionista, ma ha realizzato una cosmologia personale con immagini come pratica del sé. Mi affascinavano i sedici anni di dedizione alle sue visioni. Jung ha dato luogo a un oggetto unico, segreto, che fino al 2009 era custodito con gelosia. Non voleva che venisse frainteso e distruggesse i presupposti scientifici del suo lavoro.

La provenienza di molte opere non è «canonica», gallerie, musei etc. È stato difficile il loro reperimento?

Non è stato facile, alcuni li ho reperiti al Folk Museum di New York (come il modello di Auriti del Palazzo Enciclopedico), altri dal museo di Storia Naturale di Parigi, vedi le pietre di Roger Caillois (francese, nato nel 1913, morto nel 1978, ndr). Naturalmente, non c’è nessun interesse finanziario o di mercato nel presentare questo tipo di «oggetti». Il mio obiettivo era cancellare dalla Biennale quell’idea che fosse una top 100 o top 10, una sorta di «consigli per gli acquisti». Non ho cercato un presunto gotha degli artisti. Il mio percorso si costruisce nello spettatore come una «esplorazione superiore», che travalica la particolare visione delle singole opere. L’immagine viene interrogata come strumento del sapere, deve creare una relazione con l’immaginario.

[do action=”citazione”]Un outsider come Jung mi ha aiutato a includere figure «marginalizzate», anche artisti cresciuti in istituzioni totali. Con lui, si può guardare alle loro produzioni senza romanticismi…[/do]

Esiste però un rischio in questa operazione. Si potrebbe passeggiare, per esempio, fra opere brutte, di scarso interesse…

È bandita l’idea che le opere siano state scelte per la loro qualità; piuttosto, sono state selezionate per la loro narrazione e intensità, per l’intrinseca capacità di scompaginare e sottoporci al «nuovo». Lo stesso libro-oggetto di Jung potrebbe essere considerato di un conservatorismo estremo, sembra quasi un manoscritto medievale. Il fatto che lui l’avesse iniziato nel 1913, presentava una coincidenza felice: l’outsider Jung mi ha fornito un sostegno per poter includere figure «marginalizzate», anche artisti cresciuti in istituzioni totali. Aiuta a guardare alle loro produzioni senza romanticismi…
Un altro cardine della mostra, anche se è un concetto banale, è che l’essere umano è un produttore di immagini. È l’unico animale – a quanto sappiamo – che possiede dentro di sé già le immagini, gli archetipi. Il filone degli artisti medium rimanda a questo aspetto. Molti di loro asserivano di essere spinti a realizzare i loro manufatti da presenze sovrannaturali, ultraterrene, forze esterne da sé. Noi stessi, in fondo, siamo tutti dei media, il cervello è il primo medium che conosciamo, un medium pre-tecnologico. La parola immagine è già di suo legata al corpo. Imago è la maschera mortuaria, archetipica. La sezione che cura, dietro mia richiesta, Cindy Sherman è tutta basata sul ritratto e sulla autorappresentazione.

C’è percorso ideale ?

Sì, idealmente la mostra comincia con il Libro Rosso di Jung e finisce con la cultura digitale. Opera un rovesciamento del procedere comune, una inversione totale. Si tratta di riconoscere fuori di noi qualcosa che assomigli alle immagini che avevamo già dentro di noi, è un qualcosa di magico. La nostra interiorità è colonizzata dalle immagini. La molteplicità di dati porta a una dissoluzione della identità. Non c’è più un «io», ma sono tutti degli avatar, creature simili a ectoplasmi che colonizzano l’inconscio. Non è casuale che nella mia rassegna ci sia una cospicua presenza del Surrealismo.

Come risponde alla possibile accusa di una fuga dalla realtà?

Rispondo con Elio Vittorini: «non si suona il piffero alla rivoluzione». Questo intellettuale ci ha insegnato che è la sovversione dei codici a «risuonare», anche in altre forme.
Avevo pensato a una mostra sul la massa e il dissenso. Però mi sembrava fosse già stata realizzata – per esempio, di Berlino – e temevo di cadere nell’illustrazione dell’attualità. Ho avvertito la necessità di guardare dentro uno spettro più alto.

Il Surrealismo era un’ideale anticipazione delle mie tematiche e una trasformazione della realtà attraverso il sogno. Può sconfinare in operazioni nostalgiche: Breton e Bataille si accusavano l’un l’altro di essere criptofascisti. Anche l’occultismo può essere attaccato. Ma per me, la trasformazione era un principio di emancipazione, anche rispetto ai toni che ha assunto la politica. Interrogarsi su chi veramente è dentro e chi fuori, chi è outsider e chi insider mi sembrava un aspetto più politico di tanti altri.