Guardando al secolo scorso oramai da un certa distanza, potremmo dire che il Novecento fu il secolo della ri-scoperta dell’altro. Un «altro» che non abitava solo quell’«interno mondo straniero» indicato da Freud o quegli esotici mondi transoceanici che romanzieri, pittori e antropologi andavano esibendo, ma soprattutto alterità più vicine e domestiche, diversità endotiche a poche ore di macchina dalle nostre città.
A mostrarcene la consistenza, l’importanza e i significati fu, a metà del Novecento, Ernesto de Martino con le sue ricerche nel Mezzogiorno italiano, tra mondi magici e lamentazioni funebri, tarantismo e jettatura. Un quadro completo e puntuale dei suoi studi, della sua collocazione nel panorama intellettuale e antropologico europeo, delle sue teorie e metodologie di ricerca sul campo ci viene offerto dal libro di Amalia Signorelli Ernesto de Martino. Teoria antropologica e metodologia della ricerca (edizione L’asino d’oro, XXII + 137, euro 18). Quattro densi capitoli che spiegano, raccontano, riprendono e approfondiscono «il duplice problema della coerenza e compiutezza della teoria antropologico-culturale di de Martino, nonché della utilizzabilità qui e ora di quella teoria».

Chimere e miti
Partendo da una vecchia querelle di origine positivista che divideva l’antropologia tra «impegnata» (committed) e avalutativa (value-free), il volume di Signorelli mostra immediatamente come de Martino non abbia mai creduto alla possibilità di un’asettica osservazione «oggettiva» della realtà fin dal suo primo volume, Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941). Perché l’antropologo è dentro la storia esattamente come lo sono coloro che osserva e, inoltre, nella ricerca antropologica c’è un elemento di mutevolezza continua, dovuto sia ai cambiamenti dell’osservatore, sia a quelli della stessa realtà osservata.

Presupporre il contrario, può essere superficiale quando non potenzialmente pericoloso sul piano etico e politico, come esemplifica Amalia Signorelli, citando quelle istituzioni o imprese che sfruttano tali approcci considerati «neutrali»: «dall’industria turistica specializzata nei viaggi che fanno ’scoprire’ mondi ’diversi’ stereotipati ad hoc, onde farli aderire all’aspettativa di esoticità del turista, agli interventi assistenziali e di aiuto umanitario che si legittimano identificando la diversità con l’inferiorità, quanto meno con il ’bisogno di aiuto’; per finire con le ideologie e le pratiche dei partiti e dei gruppi politici separatisti, radicate in una visione ontologica della diversità, visione che quasi sempre mette capo a forme di vero e proprio razzismo».
De Martino visse appieno lo scandalo della guerra mondiale e descrisse quegli anni bui come «gli anni in cui Hitler sciamanizzava (…) in Europa». Certo oggi gli «sciamani» delle nostre società fanno meno parate militari, ma resiste una loro pericolosità potenziale, legata al potere di manipolazione del logos e anche alla larga adesione di molti cittadini a messaggi sempre più legati a mitologie, irrazionalismi e a tutti i vari idòla di baconiana memoria.

Sembra apparire all’orizzonte un nuovo sciamanesimo di Stato, un nuovo mondo magico, che è poi il titolo di un altro volume di de Martino discusso da Signorelli in un capitolo intitolato significativamente «Antropologia orientata da valori, antropologia libera da valori».
Con Il mondo magico (1948) l’antropologo napoletano si allontana dall’ambito dello storicismo crociano per esplorare temi e persone esclusi dalla storia e mostrare che «il magismo – a scrivere è Signorelli – è a pieno titolo una concezione del mondo e della vita in cui la questione dell’efficacia dei poteri magici ci obbliga ad affrontare questioni fondamentali anche per noi». Questioni che potrebbero essere riassunte – secondo l’autrice – nel condizionamento culturale della natura, nella crisi culturale e nella psicopatologia della presenza umana sulla terra, nelle possibili vie d’uscita dal disagio.

Era inevitabile che, dopo il magismo, l’esplorazione demartiniana si rivolgesse ad altre forme di alterità endotiche, ai contadini lucani e del Sud, considerati allora come un «problema storico al pari del mondo magico». Fu qui che de Martino visse sulla propria pelle quei continui riposizionamenti esistenziali e teorici che ogni esperienza di campo provoca, che sia tra le isole Trobriand o tra gli ultras della propria città. Fu ancora qui che nascerà in lui quella «condizione fondamentale che inaugura l’umanesimo etnografico». Un umanesimo che, andando molto al di là del significato storico che siamo soliti attribuirgli, in genere collegandolo al Rinascimento, sia basato sull’ethos del confronto con esseri diversi da noi ma uniti dalla comune umanità.

Fuori dal limite
Per de Martino, insomma, è l’uomo di scienza, l’etnologo, che deve risvegliare, grazie all’incontro etnografico, la coscienza storica delle scelte che l’Occidente ha fatto (e continua a fare). «L’altro da noi – spiega Amalia Signorelli – è strumento della scoperta dei limiti dell’Occidente e dunque anche dei rischi di crisi che incombono sulla nostra stessa cultura».
Tutto il volume è una testimonianza della dimensione umana e intellettuale del ricercatore de Martino e ne ricostruisce i passaggi più significativi del percorso formativo, da Vittorio Macchioro a Antonio Gramsci, da Karl Marx a Raffaele Pettazzoni, passando ovviamente per Benedetto Croce e altri. Si tratta di una ricostruzione non semplice, confessa la stessa Signorelli, e non solo per quella sorta di «eclettismo» che ha sempre caratterizzato lo studioso, ma anche per quella sua incrollabile fede nello «storicismo assoluto» che forse – suppone l’antropologa – gli ha permesso di rivedere costantemente le proprie ipotesi teoriche.
Altro fondamentale concetto del percorso demartiniano, tra i tanti proposti, riguarda il binomio natura/cultura: l’uomo non ha rapporti con la natura se non modellati dalla sua cultura, perché «chiedersi cosa sia la natura in sé è domanda che può nascere solo da una ‘radicale inintelligenza del metodo storiografico’, dello stesso tipo di quella che fa nascere l’’illegittima richiesta di un concetto che qualifichi che cosa sia in sé la magia per gli uomini in sé che la praticano’».
Restando fedele al suo professore (Signorelli si laureò con Ernesto de Martino nel 1957), l’antropologa scrive che «è solo e sempre ‘per entro il movimento della coscienza storiografica’ che si formulano le domande e le risposte, e si producono concetti».
Ma questo binomio natura/cultura rischia di essere interrotto dalla morte, altro tema trattato soprattutto nel volume Morte e pianto rituale, del 1958. L’uomo attraverso la sua peculiare capacità di produrre significati e valori riesce a vincere la morte, a condizionarla culturalmente «in quanto – chiosa Signorelli, riprendendo de Martino – ci consente di affrontare ‘la potenza reale della morte naturale’, opponendole ‘la potenza reale della regola umana della morte’».

Radici consapevoli
Il compito principale dell’uomo resta quello di essere presente nel mondo, di non viverlo distrattamente. Compito esemplificato nel concetto demartiniano di esserci nel mondo, dove quel ci – che differenzia l’esserci dall’essere – allude precisamente alla differenza tra stare al mondo senza sapere di starci e vivere sapendo che cosa sia il mondo e che cosa sia l’ente che chiamiamo esserci nel mondo, cioè in buona sostanza, noi stessi in quanto esseri umani. Ne consegue dunque che l’idea di «non esserci» elimini – secondo l’autrice – «la necessità di ogni spiegazione metafisica del negativo dell’esistenza, dalla colpa originaria al degenerazionismo; storicizza ciò che è negativo».

Il volume di Signorelli è informato anche da un altro concetto fondamentale di de Martino, l’etnocentrismo critico, ovvero lo sforzo che ogni antropologo dovrà fare per prendere coscienza delle sue inevitabili radici culturali, delle sue stesse categorie di osservazione, differenti da quelle del suo oggetto di ricerca. Ma è proprio questo rimettere in discussione le categorie analitiche che può far nascere la consapevolezza del proprio operare: un punto di vista critico che faccia di ogni incontro un momento costruttivo di crescita e non la produzione di un giudizio, di inevitabile superiorità.
È dunque in questo spirito «impegnato», civile che sta tutta la modernità di de Martino e del volume qui recensito. La realtà per l’antropologia demartiniana non è altro che una sorta di laboratorio civile e scientifico al tempo stesso, un laboratorio in cui l’incontro etnografico diviene metafora di ogni incontro e sistema di lettura del mondo. In un’Italia in cui la politica sembra essere subìta e non costruita insieme, la rilettura di Ernesto de Martino serve a ricordarci che l’impegno civile, scientifico, intellettuale non può esistere al di fuori delle scelte, delle prese di posizione, di una vita «orientata da valori». O, per dirla con le stesse sue parole, «potrà essere lecito sbagliare nel giudizio: non giudicare non è lecito. Potrà essere lecito agir male: non operare non è lecito».