Si concluderà domani 7 novembre al Museo archeologico della città di Alghero (Musa) la mostra Oggetti d’uso da una villa romana di Stefano Serusi, un progetto di arte contemporanea in parte già presentato a Milano presso Co_atto la scorsa primavera. L’insieme delle opere costituiva in quella prima occasione un immaginario museo del mare, in cui falsi reperti raccontavano episodi della storia di Alghero. Due di essi, poi riproposti al Musa, traggono ispirazione dalla villa romana di Sant’Imbenia, situata nella Baia di Porto Conte – la «Baia delle Ninfe» citata dal geografo greco Tolomeo nel II secolo d.C. –, a circa 17 chilometri da Alghero. I resti della lussuosa domus, scavata in maniera discontinua a partire dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso fino al 1980 e poi ancora dal 1994 al 1999 e dal 2003 al 2009, hanno colpito l’immaginazione di Serusi, artista particolarmente sensibile al dialogo con l’archeologia.

I reperti della villa di Sant’Imbenia, esposti al Musa, sono stati per lei una sorta di varco verso il passato del territorio in cui è nato. Osservando gli ambienti della domus «ricomposti» al museo, in particolare il ricco apparato decorativo – dai suoli in marmo ai soffitti affrescati e agli stucchi – si è immedesimato nella vita quotidiana degli antichi abitanti. Ciò le ha poi consentito di stabilire un legame con il presente, realizzando degli oggetti spiazzanti e anacronistici (due asciugamani a forma di delfino, un posacenere a colonna sormontato dalla riproduzione di una testa in bronzo di epoca greca, ndr) eppure perfettamente integrati nel contesto. Qual è stato l’elemento scatenante?

Credo si tratti di due elementi: uno è il legame della villa con il mare, che ritorna in parte anche nel suo repertorio iconografico, l’altro è ciò che della villa conosciamo attraverso i frammenti, e quindi il modo in cui i siti archeologici ci invitano a uno sforzo immaginativo. Mi è sempre rimasta impressa una bambina conosciuta al mare, che separandosi dagli altri al momento di costruire i castelli di sabbia si distingueva scavando delle buche che attiravano la nostra curiosità. Raccontava che da grande avrebbe fatto l’archeologa, termine che ancora non conoscevo. Guardare dentro quegli scavi, osservarvi conchiglie e pozze d’acqua, era qualcosa di magico, e ognuno vi vedeva qualcosa di diverso. Non vorrei che questo ricordo suggerisse un’idea amatoriale e romantica dell’archeologia ma, al contrario, il rispetto per una disciplina necessaria e rigorosa.

La sua ricerca artistica è segnata, in generale, da un profondo interesse per l’archeologia. Nella mostra «Nuragic alliance», curata da Anna Oggiano nel 2019, ha raccolto le testimonianze di alcuni luoghi di riunione tipici della Sardegna, con l’intento di analizzarne il ruolo nella costruzione di una comunità. Nel suo percorso, l’archeologia è un riferimento identitario o c’è dell’altro?

Credo che il riferimento identitario, per me, non sia tanto il rapporto con l’archeologia sarda quanto l’attrazione per l’archeologia tout court, che come ho già detto mi accompagna sin dall’infanzia, ed è un aspetto presente nella mia famiglia. Indubbiamente mi interessa molto indagare un’identità attraverso l’archeologia, seppure non necessariamente connessa al mio territorio d’origine. Del resto, è affascinante constatare come certi reperti raccontino mondi comunicanti. Qualche anno fa mi appassionai ad un personaggio etrusco, Vel Saties, ritratto negli affreschi della celebre Tomba François a Vulci. In seguito ho scoperto che perpendicolarmente a quell’ipogeo si trova la tomba di una donna proveniente dalla Sardegna, dal cui scavo arriva lo sgabello nuragico in miniatura che ha ispirato la mia mostra Nuragic alliance a Cagliari.

Le rovine della villa di Sant’Imbenia non sono attualmente visitabili. Ritiene che l’arte contemporanea possa aiutare a prendere coscienza del valore culturale (e sociale) del patrimonio archeologico e quindi promuoverne la valorizzazione?

Penso che l’arte contemporanea possa contribuire a riunire idealmente dei frammenti, utilizzando un filtro narrativo contemporaneo. D’altronde, gli stessi musei hanno la funzione di accompagnare il pubblico attraverso una serie di dispositivi. Certamente è fondamentale che laddove un artista interpreti in maniera soggettiva e fictionale un determinato dato storico, lo scarto tra quest’ultimo e l’invenzione sia immediatamente chiaro. Tale processo, insomma, non deve generare quelle ambiguità tipiche di alcuni romanzi e «saggi» fantarcheologici.

Quale messaggio vuole trasmettere con le sue opere ispirate al (o dal) passato?

Esse sono il pretesto per dichiarare esigenze contemporanee, come ad esempio – per quanto riguarda Nuragic alliance –, costituire e/o sentirsi parte di una comunità, e avere l’opportunità di riconnettersi con gli elementi naturali e in particolare con il mare, così come accadeva nella villa romana di Sant’Imbenia. Per fare un ultimo parallelismo con l’archeologia, mi affascinano quei siti fortemente stratificati, che sono stati frequentati da tante persone in epoche diverse, con varie funzioni. Da qui il desiderio che la mia ricerca tocchi nel tempo sensibilità e temi sempre diversi, e trovi – anziché una sintesi che li appiattisca – delle strade che li uniscano.