«Non è un’opzione ma un dovere», dice il premier concludendo il suo intervento. Parla dell’unità necessaria per portare l’Italia fuori dalla tempesta ma le stesse identiche parole potrebbero essere usate per i partiti della maggioranza. Il fallimento li travolgerebbe, tutti e ciascuno. Applaudire è d’obbligo ma riuscirci, persino con le migliori intenzioni, è un’altra storia.

Nei partiti della maggioranza il nervosismo è palpabile. L’insistenza ostentata dai 5 Stelle sulla «continuità» tra questo governo e quello precedente, i continui e martellanti omaggi a Giuseppe Conte fanno il paio con la richiesta secca della capogruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini di segnalare «la variante Draghi: cioè la discontinuità». La capogruppo di LeU Loredana De Petris lo dice chiaramente nella sua dichiarazione di voto: «Siamo in maggioranza per incalzare il governo». Cioè per spingerlo in una direzione invece che in un’altra. L’ex ministra di Italia viva Teresa Bellanova considera l’eterogeneità anche una possibile opportunità, una ricchezza, spiega. Sempre che la politica riesca a esercitare l’arte della mediazione e si dimostri matura, aggiunge però.

Tutti devono masticare qualcosa di amaro, ma la Lega forse più degli altri. Sull’europeismo Mario Draghi non transige, se in altri campi concede margini di diplomazia se c’è di mezzo l’euro picchia duro. Come ha fatto ieri spiegando senza mezzi termini che chi appoggia il suo governo si dichiara con ciò stesso convinto dell’irreversibilità della moneta unica. Ma non è tutto qui. Una riforma fiscale destinata a mantenere la progressività è un de profundis per la Flat Tax.
La centralità assoluta dell’ambiente annunciata da Draghi mette fuori gioco il modello di sviluppo leghista e del resto la scelta di Enrico Giovannini come ministro per le Infrastrutture era più eloquente in materia di ogni discorso.

Le facce di Matteo Salvini e Alberto Bagnai, alla fine del discorso di Draghi, rivelano in pieno il pessimo umore. Ma il leghista tiene botta. La posta in gioco è troppo alta per consentire alzate di testa. «Ottimo discorso. La Lega c’è convintamente. Vedremo di essere la parte concreta della coalizione». Nell’intervento, poi, il leghista tira la coperta dalla sua parte appigliandosi alle parole di Draghi sul rimpatrio dei clandestini secondo le regole europee e allo sblocco dei cantieri. Per la Lega, ripete, l’importante è che le tasse non aumentino. È un espediente a cui ricorrono un po’ tutti e che Draghi ha permesso calibrando le parole più di quanto non appaia a prima vista. Esemplare, da questo punto di vista, l’omaggio formale al Recovery Plan del governo Conte messo lì a coprire l’intenzione di rivederlo da capo a piedi. Anzi di «rimodularlo, riaccorparlo e rinforzarlo negli obiettivi strategici e nelle riforme».

Tuttavia le zone lasciate in chiaroscuro da Draghi dovranno essere risolte in un senso o nell’altro e quelle vie alternative lasciate in sospeso saranno il «campo di battaglia». Il premier mira a centrare la lotta al Covid sulla «medicina territoriale», ed è il turno di Forza Italia di ingoiare il boccone amaro con la smentita di fatto del modello Formigoni. Ma si ferma un attimo prima di annunciare quel ritorno a una sanità davvero pubblica che è tanto imprescindibile per il Movimento 5 Stelle e LeU quanto tabù per Lega e Fi. Conferma il sostegno alla popolazione più colpita dalla crisi, ma senza spingersi sino a confermare ufficialmente il blocco dei licenziamenti, e qui è l’ala centrista del governo che si prepara a puntare i piedi. Annuncia un riforma fiscale progressiva ma glissa su quella «rimodulazione in senso più equo» del quale aveva invece apertamente parlato nelle consultazioni.

Il Sud, poi, è stato probabilmente il punto più debole del discorso del premier. Tanto vago da rivelare che proprio su quel nodo si articolerà forse lo scontro più essenziale e decisivo all’interno di questa strana sorta di governo che riassume in sé quasi l’intero Parlamento.
La conflittualità sarà inevitabile. Il Pd e la Lega già cercano di sminare il terreno ma l’intervento del capogruppo del Movimento 5 Stelle Ettore Licheri, che annuncia un «sì vigile, anzi guardingo» si rivela ancora in preda a lacerazioni tenute a freno solo dalla determinazione estrema di Beppe Grillo. Ma alla fine a fare la differenza sarà la capacità di Mario Draghi di navigare in acque infide.