Nei giorni scorsi abbiamo assistito a un appello piuttosto singolare, rivolto da un autorevole soggetto istituzionale, il procuratore aggiunto del Tribunale di Palermo, ai vertici dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra, cioè Riina, Provenzano, Messina Denaro.

In estrema sintesi, questi ultimi venivano invitati a recidere i legami con i loro politici di riferimento. «Voi siete sommersi di ergastoli e loro la fanno sempre franca, si arricchiscono, sono tutti a piede libero».
L’appello prende spunto dall’esito del processo sulla trattativa stato-mafia che, come è noto, ne ha messo fortemente in dubbio l’esistenza. La lettura dell’appello, comunque, stimola a ragionare sullo stato attuale di Cosa nostra, con particolare riferimento al tempo della recessione in cui si trova a operare.

Dunque, si è certo sbiadita l’attenzione mediatica della metà degli anni ’90. Ma, l’attuale azione repressiva viene giudicata continua e incisiva così come apprezzabili appaiono le reazioni e le iniziative della società civile. La struttura mafiosa sembra iniziare a perdere consenso grazie allo sviluppo della cultura della legalità tra la popolazione siciliana, meno propensa, rispetto al passato, ad accettare vessazioni e soprusi. A queste valutazioni rassicuranti se ne contrappongono altre intrise di preoccupazione. Cosa Nostra ha sostituito la sua struttura unitaria con un modello pulviscolare e manifesta una specifica attitudine a riscostruire le sue articolazioni (mandamenti, famiglie), a gestire le estorsioni sul territorio, a organizzare il traffico di droga; le più recenti operazioni di polizia dimostrano come i capi storici attualmente in carcere vengano subito rimpiazzati da gregari. (…)

Qualche dato sull’attuale dimensione «quantitativa» di Cosa nostra. Un esercito, tra scarcerati eccellenti, vecchi boss e picciotti, stimato in due mila affiliati. Patrimoni ingenti (aziende e fondi all’estero) gestiti ancora dai boss. Buchi nei controlli bancari che agevolano il riciclaggio e l’inserimento nell’economia attraverso il circuito degli appalti e la compartecipazione ad aziende oltre ai business tradizionali (droga e racket).

La principale attività, oltre il traffico di stupefacenti e il settore delle opere pubbliche, dove i clan pretendono percentuali (circa il 2% secondo la Dia) sull’importo complessivo di ogni appalto, resta quella estorsiva che, nel caso delle grandi imprese, viene dissimulata dall’imposizione di forniture, dalla forzata assunzione di manodopera prescelta dal clan, oppure dall’imposizione di imprese operanti in regime di subaffidamento. La città di Palermo è e rimane il luogo in cui l’organizzazione criminale esprime al massimo la propria vitalità sia sul piano decisionale (soprattutto) sia sul piano operativo.

I dati del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Palermo parlano di 120 aziende sequestrate tra il 2012 ed i primi sei mesi del 2013 per un valore di un miliardo di lire.
È possibile abbozzare una mappa delle infiltrazioni mafiose nell’economia siciliana: grande distribuzione, energie rinnovabili, settore turistico-alberghiero, edilizia, trasporti, commercio e servizi, gioco d’azzardo. Ultime start-up: fiori e cereali. (…)

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