Francesca Serio è la donna avvolta in un lungo scialle e ritratta, con il viso segnato dal dolore, in un quadro che a stento sembra contenere il nero del suo lutto. Così la dipinse lo scrittore Carlo Levi nel 1956, appena un anno dopo la morte di suo figlio, Salvatore Carnevale, il contadino sindacalista di Sciara, a cui i mafiosi avevano sparato in faccia cinque colpi di lupara. Oggi questo quadro non c’è più. È sparito nel nulla, inghiottito da una coltre di omertà. Nel trasloco venne prelevato da una stanza dell’ufficio dell’assessorato alle Finanze della Regione siciliana, ma non giunse mai nella nuova sede di via Notarbartolo dove era destinato.

Da quel momento se ne perdono completamente le tracce. «Smarrito», scrissero le forze dell’ordine nel loro verbale. «Neppure noi alla Fondazione Carlo Levi sappiamo dove possa essere il ritratto, come ignoriamo che fine abbiano fatto quelle tele, 363, mai più ritrovate». A parlare è Guido Sacerdoti, nipote di Levi, presidente della Fondazione, che lancia un vero e proprio appello: «Come è possibile che questo patrimonio si sia dissolto? Da 28 anni cerchiamo la verità ma in cambio riceviamo silenzio e reticenze. Vogliamo che si faccia luce».

Il ritratto di Francesca Serio, noto anche come «La madre di Sciara» non è infatti l’unica opera del pittore torinese, portavoce di quel Sud del dopoguerra misero, eppure dignitoso, a svanire in circostanze «strane». Stesso destino di altri suoi celebri dipinti. Circa 1145 tele erano state assegnate da Linuccia Saba, amica, compagna di Levi, alla Fondazione, un ente morale istituito dal presidente Pertini nel ‘79. «Alla di morte quest’ultima -racconta Sacerdoti- quando con Giulio Einaudi, Natalia Ginzburg e altri intellettuali, fu sostituito il vecchio Cda, mancavano all’appello molte opere importantissime. Alcune erano state sostituite con lavori minori, in altri casi nei registri, per giustificare l’assenza delle tele, era stata utilizzata la formula «ceduto», anziché «venduto a». Per avventura se ne era poi riuscito a identificare un certo numero, che la Guardia di Finanza aveva posto in custodia in un deposito. Da lì, una volta infranti i sigilli, le opere scomparvero nuovamente».

Un caso intricato dunque, ma soprattutto irrisolto, che ha inizio nel 1985. A dieci anni dalla scomparsa dell’autore di «Cristo di si è fermato ad Eboli», Luisa Orioli, sua modella, traduttrice, consigliere delegato nell’82 della Fondazione, denuncia con due esposti alla Procura della Repubblica di Roma che, solo 782 opere erano rimaste in possesso dell’Ente, a fronte delle 1145 donate. Ad andare «smarriti» furono pure i documenti con i prestiti e le uscite delle tele, tutti i registri e le foto delle opere.

«Non si ebbe molto riguardo nè del lavoro, né della memoria di Carlo Levi -spiega Pasquale Limoncelli, direttore della Casa della Cultura di Teramo, dedicata proprio al ricordo dell’autore- Ciò è molto triste, perché era un uomo generoso, disponibie, fu un caro amico. Nel ‘74, dopo la sua morte, accaddero strani episodi. Ricordo che alcuni suoi quadri cominciarono ad essere venduti, dalla stessa Linuccia Saba, per pochi soldi, senza rispettarne il reale valore di mercato». Inoltre, come sostenne Luisa Orioli in una dichiarazione dell’epoca: «Non era mai stata fatta un’esatta catalogazione dei suoi lavori e per questo qualcuno si sarebbe potuto appropriare delle opere».

Ma il vero giallo della storia sta nella difficoltà di stabilire quali fossero i quadri della Fondazione e quali invece quelli della proprietà di Linuccia Saba. Nonostante la magistratura avesse aperto un’inchiesta e nei rapporti dei carabinieri si parlasse di furto e ricettazione, su tutta l’indagine cala lentamente il sipario. In più, come se non bastasse, centinaia di falsi iniziano a circolare, pure sul web, con foto e finte certificazioni. « Il suo mercato è letteralmente crollato. Se un quadro di Levi negli anni ‘70 veniva venduto 10 milioni di lire, oggi, a 37 anni dalla sua morte, vale 1.800 euro». Spiega Leonardo La Rocca, gallerista di Palermo, proprietario di alcune opere del maestro. «Quando un autore è falsificato vuol dire che è accreditato – dichiara però Duccio Trombadori critico d’arte, docente di Estetica alla Sapienza di Roma. – Le quotazioni dei quadri di Levi sono diminuite, ma ciò non toglie che il loro valore pittorico sia altissimo».

Questo spiega perché siano scomparse e perché continuano a sparire così tante opere di Carlo Levi? Forse sì, se ripensiamo a quel ritratto, «La madre di Sciara», ultima opera del maestro ad essere stata trafugata. «Acquistata nel ‘61 dall’assessore della Regione siciliana Paolo D’Antoni, fu sistemata nel deposito del Museo Pepoli di Trapani e lì rimase per undici anni -racconta Vincenzo Scuderi ex Soprintendente alle Gallerie e Opere d’Arte della Sicilia- Solo nel ‘73 venne prelevata dalla Regione, a cura dell’assessorato alle Finanze. Fu re-inventariata, fotografata. Sino a quando per un recente dissesto statico in uno degli uffici, il ritratto fu tolto dalla sua parete, portato in un’altra ala del palazzo, in attesa che la ditta di trasloco lo prelevasse. Nessuno però lo vide più».

Persino la denuncia alle forze dell’ordine venne fatta inspiegabilmente tre anni dopo. Si tratterà solo di coincidenze, eppure sono diversi i lavori andati perduti in cui Carlo Levi descriveva la Sicilia. Fra tutti una grande tela (200×300) dipinta nel 1965. Un vero manifesto pittorico. L’affresco corale di un’epoca segnata da lotte contadine, innocenti uccisi dalla mafia, «scioperi alla rovescia» di Danilo Dolci, la cui immagine campeggia, nel dipinto, in primo piano con le mani chiuse e incrociate. Un ricordo dell’arresto che Dolci subì nel ’56, per aver guidato un gruppo di braccianti a lavorare in una terra incolta.

Attorno a lui, nel quadro, le donne, i bambini e gli uomini per cui chiedeva giustizia. «Le parole sono pietre», così aveva voluto chiamare il dipinto Levi, assegnandogli lo stesso titolo del libro in cui narrava dei tre viaggi in Sicilia. E oggi, chissà cosa guarderanno quegli occhi che silenziosi rivendicavano il loro diritto al lavoro.