Quanto tempo bisogna immaginare per ritornare indietro a quei quattrocento milioni di anni quando le prime piante galleggianti vennero abbandonate dalle onde sulla terraferma? Il mondo che noi conosciamo non esisteva nemmeno, nulla di quel che possiamo osservare fuori dalla finestra. Le primissime piante che si sono riuscite ad adattare all’esistenza fuori dall’acqua, come scrive lo storico Hansjörg Küster (in Storia dei boschi, Bollati Boringhieri), «assorbivano l’acqua dalle radici e la trasportavano attraverso le cellule tubulari, i tessuti conduttori del fusto, fino alle porzioni distali».

LA LIGNINA, OVVERO LA STRUTTURA portante del legno, da subito si è dimostrata essenziale, infatti le cellule del trasporto di acqua ne erano ricoperte, internamente, per consolidarne la forma. Inoltre le prime piante erano inguainate in uno strato di cera, la cutina, che impediva la perdita di acqua all’esterno. Fra le radici di queste prime piante erbacee si iniziarono a raccogliere sabbie e pietre e resti organici morti. L’acqua fece in modo che questo nuovo miscuglio di elementi diventasse quel terreno fondamentale che poi ha ricoperto, in milioni e milioni di anni, la superficie del pianeta e che ha rappresentato il substrato essenziale per la crescita delle forme di vita successive. Poiché la disponibilità di luce resta invariata, le piante hanno iniziato a crescere verso l’alto, irrobustendosi e favorendo le specie più abili. Così nacquero i primi boschi.

ATTUALMENTE IN ITALIA OLTRE UN TERZO del paesaggio è ricoperto da boschi e aree boscate. In Francia sono il 30%, in Germania il 31, in Spagna il 36 in Giappone il 68, in Svezia il 69, negli Stati Uniti d’America il 34%, mentre in Brasile e nelle Russie poco al di sotto del 60%. La foresta più diffusa in Italia è il querceto, che può assumere diversi nomi a seconda della specie prevalente o dominante: la lecceta, la cerreta, la sughereta, o, più in generale, quando sono presenti farnia o roverella, semplicemente, querceto. La specie singola, invece, più presente, è il faggio (Fagus sylvatica), con una stima prossima al miliardo di esemplari. Ora, pochi alberi come la quercia rappresentano il simbolo matriarcale del bosco, della natura stessa. Non a caso Mauro Corona, nel suo celebre Le voci del bosco, abbinando i tipi di comportamento umano alle singole varietà di pianta scelse per la quercia la maternità: quel tronco vasto, le lunghe ramificazioni, la figura maestosa e rassicurante.

PERLUSTRANDO LE NOSTRE REGIONI s’incontrano grandi querce. Alcune oramai sono diventate vere e proprie star, fotografatissime, a talune è addirittura abbinata una pagina sui social network. Ad esempio, esiste la farnia di Sterpo, in provincia di Udine, presso la proprietà di Villa Colloredo Venier (altezza 21 mt, circonferenza del tronco apd 780 cm), oppure la farnia cava e tornita di Villanova a Fossalta di Portogruaro. Per dimensioni e vastità di chioma celebre e amata è la Quercia delle Streghe (altezza 15 metri, circonferenza tronco 450 cm, la chioma ha un diametro, stimato, di circa 40 mt), detta anche Quercia di Pinocchio o del Collodi, in frazione Gragnano, a Capannori, lucchesia.

LA QUERCIA DELLE CHECCHE (ovvero delle gazze ladre) resiste, dopo diversi gravi infortuni, compreso una frustata da fulmine, di fronte al paesaggio dipinto delle crete del senese, a Pienza. In Piemonte ancora poco nota ma non dimeno rigogliosa è la quercia di Novi Ligure, coi suoi tre secoli di ghiande. Nel comasco, a Grandola e Uniti, fra i boschi, si innalza uno dei maggiori cerri italiani, chiamato localmente il Rugulun o Rugolon o Rogolone, col suo vasto tronco di 775 cm di circonferenza. Lo si credeva quasi millenario, recenti introspezioni dendrocronologiche hanno ridotto a 300/320 anni.
Nelle regioni del Mezzogiorno non si può dimenticare la Vallonea dei cento cavalieri, a Tricase (LE), esemplare maestoso di Quercus ithaburensis subsp. macrolepis, specie sempreverde, che produce ghiande di dimensione sorprendente. Oppure le tante belle e vaste querce delle Madonie, dai nomi superbi, come la sughera vecchia di Cava, la roverella di Gibilmanna, la roverella di Montaspro, la roverella di Macchia dell’Inferno.

A QUESTO STRAORDINARIO PATRIMONIO naturale si aggiunga la Quercia Madre che si trova sui piani della Val di Sella, a pochi passi dalla sede principale di Arte Sella, in Valsugana. L’avevo già adocchiata quando in passato ero stato a visitare le opere costruite con materiali naturali, secondo la visione di «arte in natura» che Arte Sella propone, ma non mi era parsa così grande. E, a distanza, l’avevo oltremodo scambiata per un faggio. La devastazione del ciclone Vaia, che lo scorso 29 ottobre ha travolto abitati e boschi di Trentino, Sudtirolo e Bellunese, quassù ha colpito duramente. Nonostante tutti si siano rimboccati le maniche, ancora molti alberi sono distesi, spezzati, sradicati. Percorrendo la lingua di asfalto stretta che da Borgo Valsugana risale fin ai mille metri, lo spettacolo può troncare il respiro.

OLTRE MODO CON QUELL’IMPREVEDIBILITA’ e quell’irregolarità che il vento sa disegnare: in un punto bosco azzerato, cento metri avanti non sembra accaduto nulla. I vecchi tigli invece hanno resistito. A cedere sono state le conifere, prevalentemente gli abeti, con le loro piccole calzature radicali e la loro geometria a fila indiana. Abbandono l’auto all’ultimo parcheggio e seguo la strada che conduce alla sede espositiva di Arte Sella, dove molte celebri opere sono state compromesse. Ma rivedo, sulla mia destra, in cima ad un prato, in leggera salita, la chioma scura e gotica dell’albero che credevo un faggio. Ho tempo e quindi vado a visitarla. E, avvicinandomi, capisco che è molto più vasta e decisamente più annosa rispetto a quel che avevo fugacemente immaginato. Come ho fatto a ignorarti, bellezza! Le dico, e facendomi schiacciare dalla sua ombra ramificante poso la testa contro la corteccia costolata, segno dei secoli che custodisce e vi sono incisi.

TANTI RAMI SERPENTINI. POCHE FOGLIE secche ancora appese mi tolgono qualsiasi dubbio, prima che le nuove gemme imprimano la foliazione primaverile. Un grosso tronco si alza e si scioglie a metà della sua altezza, proiettando in ogni direzione una chioma circolare, che ben pare aver sopportato la violenza dei venti che ha spianato parte del bosco che cresceva ai suoi piedi, con chiome di abeti inginocchiate, al suo cospetto. Un simbolo. Misuro a spanne la circonferenza del tronco: siamo prossimi ai 6 metri. L’altezza si aggira fra i 18 e i 20 metri. Conto venticinque passi fra un limite e l’altro della chioma. Standoci sotto è una maestosa sorpresa. A pochi passi un’abitazione campestre, e una piccola cappella boscosa, dentro al quale riesco a vedere un tavolino, uno scrittoio essenziale, che fa da altare, un crocefisso appeso alla parete e a lato, una madonna raffaeliana. Più spoglia di così sarebbe una cantina.