Alias

La Macina, equilibrio folk

La Macina, equilibrio folkGastone Pietrucci e il suo gruppo La Macina al Teatro Pergolesi

Tradizioni Incontro con Gastone Pietrucci, leader dello storico gruppo marchigiano

Pubblicato circa un mese faEdizione del 17 agosto 2024

La marchigiana Macina guidata da Gastone Pietrucci condivide con la Nuova Compagnia di Canto Popolare campana un’origine lontana nel tempo: il biennio ’67-’68, entrambe le formazioni modelli per tutto il folk progressivo a venire, nel delicato ma mai problematico equilibrio tra creazione e tradizione, fonti dirette e rielaborazione. Ne abbiamo parlato con lo stesso Pietrucci.
Negli ultimi decenni, sono via via scomparsi gli informatori, gli «alberi di canto». La memoria sopravviverà?
Sono ormai più di cinquant’anni che lotto con La Macina per far sopravvivere la musica popolare della nostra gente. Non so se sopravviverà. Vedo un’Italia sempre più feroce, disperata, incivile e senza memoria, condannata a non avere futuro. La mia agenda è lì a testimoniare un mondo che via via è andato inesorabilmente scomparendo, ma che ho cercato di far conoscere quando ancora erano in vita gli autentici portatori della tradizione. Ora ricordandoli con le pubblicazioni nella collana Foglie d’Album e continui concerti. Sono sempre più convinto, come ha scritto Allì Caracciolo, che «Noi veniamo dal ricordo dei tempi/carichi di promesse e di parole…» e che «non esiste la separazione definitiva finché esiste il ricordo». (Isabel Allende).
Come hai fatto a tenere duro, come dimostra la corposa discografia e serie concertistica?
Non ho mai pensato di mollare. Ci sono stati momenti critici nei cambi di formazione, inevitabili in un gruppo che ha ormai quasi sessant’anni di attività. All’inizio li vivevo come un trauma, oggi mi rendo conto che sono salutari e insperate boccate d’aria fresca, portatrici di stimoli e idee. Mi sono reso conto che per La Macina tutti sono stati importanti, nessuno indispensabile; perché La Macina è sempre pronta a far uscire ed entrare chi lo desidera, inamovibile e sempre più «giovane». La Macina è stata ed è un grande sogno e per portarlo avanti ci vuole un altro testardo, lucido sognatore che vive per quel sogno, non a intermittenza, ma a tempo pieno, giorno dopo giorno.
Come è nata in te la passione per il canto popolare?
Nel 1964 a Spoleto al Festival dei Due Mondi ebbi la fortuna di assistere a quell’indimenticabile spettacolo di canzoni popolari a cura di Roberto Leydi e Filippo Crivelli, Bella ciao, dal Nuovo Canzoniere Italiano. Fu per me, giovane e completamente all’oscuro di questa «altra» musica, una folgorazione. Mi fece conoscere un’altra Italia che «sapeva e poteva cantare» come scriveva Crivelli. Prima ho cercato di imitarli, nella mia ignoranza giovanile, convinto che la musica popolare fosse solo quella di Bella ciao e dei suoi carismatici interpreti (Giovanna Daffini, Caterina Bueno, Giovanna Marini, Michele L. Straniero, Sandra Mantovani, per citarne qualcuno). Rifare quelle canzoni significava andar «contro» la melassa di Sanremo, l’ignoranza dei mezzi di comunicazione, l’asfissiante conformismo, le mode straniere, soprattutto l’inarrestabile «colonizzazione» dall’America e dai suoi modelli. Significava cantare e suonare qualcosa di cui ti eri innamorato e non ti avrebbe più abbandonato. Quindi ricercare, studiare, riproporre le canzoni della mia gente, scoprire i veri «misteri bulgari» nella mia terra, non in altre esotiche realtà. Approfondire e far conoscere la tradizione marchigiana ad un pubblico sempre più vasto ed entusiasta, nonostante e contro l’ottusa disattenzione dei media e del sistema.
Come è nata in origine l’idea di collaborare con musicisti di tutti i generi? Ti preoccupa il giudizio di quei cultori del folk «museale» che parlano di «tradimento»?
È nata improvvisamente. Nel ’98, quando chiesi a Valeria Moriconi di collaborare con La Macina per un concerto in occasione del centenario della morte di Antonio Gianandrea, uno dei grandi ricercatori delle tradizioni popolari marchigiane dell’Ottocento. Da quell’ubriacante esperienza la mia voglia di collaborare con altri artisti e altri generi musicali mi travolse, da Rossana Casale ai Gang, Moni Ovadia, Giovanna Marini, Dodi Moscati, Lucilla Galeazzi, Sara Modigliani, Riccardo Tesi, Marco Poeta. E poi il sassofonista Federico Mondelci, il Teatro sperimentale A di Allì Caracciolo, il jazz, la musica sinfonica. Fondamentali, le collaborazioni, solo così un gruppo può crescere. Il giudizio dei cultori del folk «museale», di ricalco non mi ha mai preoccupato. La stessa tradizione per rimanere viva si è continuamente aggiornata: non mi riguarda una riproposta sdolcinata, da cartolina tipica dei famigerati gruppi folkloristici, anche se, come ha detto Giovanna Marini in un’intervista: «Trasmettendoli, inevitabilmente li tradisco».
Se dovessi scegliere una collaborazione particolarmente cara per gli esiti, quale sceglieresti?
Senza dubbio quella con i Gang. Un incontro fondamentale e una grande amicizia con i fratelli Severini. Un’esperienza che ha arricchito entrambi i gruppi. Una collaborazione che, dopo ventiquattro anni, continua a dare i suoi frutti.
C’è mai stato un concerto in cui, tuo malgrado, hai sentito che una lacrima si faceva largo dagli occhi, per intensità?
Tutte le volte che interpreto Sotto la croce Maria, questa struggente passione popolare. Maria piange disperatamente sotto la croce, non come regina dei cieli, ma come madre terrena straziata alla vista del figlio sulla croce. Un brano che ti entra dentro nell’anima. E il pathos il pubblico lo avverte e alla fine emozionato te lo trasmette, con applausi lunghissimi e sinceri.
Il tuo consiglio a un giovane che decidesse di seguire le tue tracce…
Non perdere mai la passione, non cercare scorciatoie, essere preparati, seri, anche con un pizzico di follia. Se uno affronta la musica popolare, irrinunciabile è la ricerca sul campo, non sui libri e i dischi. Poi nella riproposta ognuno è libero di fare come meglio crede. Mi scandalizza vedere chi copia senza mai citare l’originale, così un gruppo non avrà mai storia, spessore e futuro. Se hai la fortuna di avere un materiale straordinario, come quello che ha La Macina, puoi affrontare qualsiasi prova, perché la vera musica popolare non passa di moda e La Macina l’ha dimostrato in tutti questi indimenticabili anni.
L’ultimo lavoro discografico de La Macina è una testimonianza di incontri coi poeti. Un fatto antico o una passione via via precisatasi?
Tutto nasce dalla conoscenza della folgorante poetica di Franco Scataglini una ventina di anni fa. Abbiamo musicato ventiquattro liriche. Un’esperienza che mi ha segnato. Poi Pier Paolo Pasolini e Francesco Scarabicchi, l’altro grande poeta anconetano, grande amico, che ha scritto per noi la sua splendida Nave che porti al niente, la grande voce poetica di Allì Caracciolo, Remo Pagnanelli. È stata un’operazione quasi inevitabile, che ha dato ulteriore forza e spessore al gruppo.
Sei notoriamente anche un artista del collage. Questa passione quando è nata? Hai mai pensato che il «mettere assieme su una stessa superficie» materiali diversi assomiglia alle buone contaminazioni che hai fatto con La Macina nei decenni?
Non so dire quando ho iniziato, sicuramente prima del ’68. Il collage è diventato per me vitale come il canto. Non avevo mai pensato di collegare il collage alle «buone contaminazioni» musicali, ma devo ammettere che c’è del vero: il risultato finale non è la semplice somma di elementi. Rivelo un altro piccolo segreto. Da una vita sto facendo i collage anche nei libri. Nella mia biblioteca ho quasi mille libri, «arricchiti» con miei lavori, i miei «collage segreti». Più pazzo di così!
Le Marche sono, dal nome, una terra di confine. Ti chiederei di commentare questa frase del musicista Don Cherry: «Chi crede ai confini finisce per diventarlo, un confine».
È vero! E io non voglio diventare un confine, la musica, l’arte, non può avere confini né piccole patrie, ma grandi spazi, grandi orizzonti, grandi libertà.

LA BIOGRAFIA
Gastone Pietrucci, nato a Monsano, in provincia di Ancona, nel 1942, è uno degli uomini cardine del folk revival italiano meno legato a ingessate forme museali e tradizionalistiche. Cresciuto in una terra di confine cerniera tra culture musicali diverse, sempre in dialogo costante, nel 1968, ventiseienne, ha fondato La Macina, il suo gruppo di ricerca musicale sulle tradizioni orali delle Marche che, nel tempo, è diventato un motore di complesse operazioni culturali, concertistiche e spettacolari. Con un formidabile lavoro di indagine sulle «fonti viventi» di quelle tradizioni Pietrucci ha convogliato nei canti e nelle musiche de La Macina, corpus di oltre venti incisioni, e nel prezioso volume Cultura popolare marchigiana del 1985 un patrimonio sterminato di sapere contadino e operaio che rischiava di scomparire.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento