Si intitola L’invenzione della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri, (ombre corte, pp. 120, euro 13) ed è l’ultimo libro di Massimo Filippi.
Come per i suoi precedenti, alla perizia filosofica l’autore accorda una complessità di ragionamento che ne determina la cifra sua propria. Attorno alla discussione sul concetto di «specie», molte sono le istanze che vengono convocate, in una articolata trama di riferimenti bibliografici maneggiati con originalità.

IL TEMA tuttavia non è unico, come a dire che quando si pongono delle questioni teoricamente rilevanti come la relazione umano-animale e la costruzione di ciò che ne ha decretato la norma, si percorre il terreno scivoloso di «natura» e «cultura»; l’arcipelago che allora si impone deve contrattare tra i vari significanti che spesso non coincidono con i significati e che non consegnano una storia in chiaro, bensì un orizzonte che va ribadito nelle sue declinazioni e decostruzioni singolari.

È DA TEMPO che Massimo Filippi cerca di portare a guadagno le intersezioni che si vengono a generare tra attivismo e teoria, indicando soprattutto – come è riuscito a fare negli ultimi anni – alcuni punti critici anche in pensatori e pensatrici solide e apparentemente disinteressate all’argomento. È stato il caso di Judith Butler (Corpi che non contano) così come quello, più recente, di Michael Hardt (Altre specie di politica). Un’indagine dunque capace di sfondare la stessa gabbia teorica di specismo e antispecismo, per muoversi superando le dicotomie a partire dai corpi e da ciò che succede loro.

Lo specismo – ci informa Filippi «è la macchina antropologica che funziona grazie a dispositivi sacrificali che, a sua volta, (ri)produce. Che sia macchina antropologica è immediatamente evidente: lo specismo lavora a partire da un centro vuoto – da un’opposizione umano/animale che, seppur storicamente variabile, è sempre presupposta – al fine di incidere sulle superfici dei corpi e di inscrivere fin dentro la carne dei viventi, come la macchina veramente curiosa della colonia penale kafkiana».

LA PASSIONE che attraversa L’invenzione della specie è palpabile, si intuisce dai modi della scrittura scelta dal suo autore che – insieme all’innamoramento verso l’oggetto – dispone uno zibaldone dell’antispecismo, un «indicibile» (come viene prontamente definito) che è anzitutto visione del mondo e dei viventi che lo abitano. Averne contezza, del mondo e di chi lo abita, pone la questione decisiva dell’utilizzo che spesso invece si fa di griglie che non dicono niente e certo non restituiscono punti di esperienza né di verità. Ma non è il caso di Massimo Filippi – né, in generale, dell’antispecismo italiano che da anni si impegna sull’intersezione tra lotta e ricerca filosofico-politica.