La polemica nei confronti della burocrazia è un luogo classico dell’apologetica vetero e neoliberista. All’interno di quelle narrazioni, il ricorso ai meccanismi decentrati del mercato, alla loro razionalità orientata alla concorrenza e all’efficienza, costituirebbe il naturale antidoto alla superfetazione di scartoffie e procedure in cui risiederebbe l’essenza paralizzante dello statalismo. La realtà che ci consegnano gli ultimi decenni, trascorsi all’insegna del new public management e dell’assunzione dell’azienda come modalità organizzativa universale è ben diversa.

Un lessico mefitico

E così come le cosiddette deregulation si traducono immancabilmente in un incremento dei quadri normativi e delle tipologie contrattuali (si veda, in proposito, il mercato del lavoro), le politiche volte allo snellimento e alla semplificazione sono notoriamente sinonimo di complessificazione delle procedure, di introduzione di nuovi livelli di controllo, di proliferazione pratiche di auto ed eterovalutazione.
Si tratta di un dato ben noto, per esempio, a chi lavora nel comparto istruzione, dalle scuole alle università. Nella quotidianità del docente, lo spazio dedicato all’insegnamento o alla ricerca è sempre più eroso dall’incremento del lavoro burocratico, dalla compilazione di moduli, cartacei o online, da esercitazioni a soggetto da eseguire rigorosamente nel mefitico lessico pedagogico-aziendalista fatto di obiettivi, competenze, step, qualità ecc.

Al diritto amministrativo propriamente detto, con i suoi adempimenti, se ne aggiunge un altro, di origine privata, legato alla circolazione globale di benchmark, best practices, protocolli di iscrizione, normative Iso ecc. Non diversamente si presentano le cose nel settore privato, nonostante le pretese di razionalità ed efficienza miticamente giocate contro l’idolo negativo del pubblico. Del resto, la burocrazia non è certo monopolio degli apparati statali, come attesta la sua duplice genesi non solo pubblica ma anche privata, nello scenario delle grandi corporations.

Regole ferree

Il tema della burocrazia e della sua crescente invasività è al centro del recente volume di David Graeber The Utopia of Rules, tradotto da il Saggiatore con il titolo di Burocrazia (pp. 218, euro 21) e un discutibile sottotitolo da manuale di self-help: Perché le regole ci preseguitano e perché ci rendono felici. Si tratta di una tematica che permette all’antropologo anarchico, noto per la militanza in Occupy!, di tematizzare da un differente punto di vista rispetto al fortunato Debito. I primi 5000 anni i meccanismi estrattivi e di rendita di quel capitalismo contemporaneo troppo spesso semplicisticamente definito, con implicito riferimento al suo canone di autolegittimazione, in termini di neoliberismo.
La superfetazione burocratica, infatti, viene vista come una componente non accidentale ma strategicamente decisiva dei processi di cooptazione, alleanza e redistribuzione della ricchezza verso l’alto che caratterizzano la strutturazione globale della società dell’1 percento.

Graeber apre con la sua analisi con l’enunciazione di una «regola ferrea del liberalismo», in base alla quale «qualsiasi iniziativa di governo volta a ridurre la burocrazia e a favorire le forze di mercato avrà l’effetto ultimo di incrementare il numero complessivo delle norme, la quantità complessiva delle pratiche cartacee e il numero dei burocrati». Da un simile punto di vista, mercato e burocrazia lungi dal costituire polarità antitetiche appaiono implicarsi reciprocamente. Contro la riduzione della società a sommatoria di contratti, il Durkheim di La divisione del lavoro sociale puntualizzava come «non tutto nel contratto sia contratto». Muovendosi sulla scia di quell’intuizione, Graeber evidenzia la proliferazione di dispositivi istituzionali e apparati normativi e valutativi che si accompagna alla consegna ai cosiddetti meccanismi della contrattazione individuale e della domanda-offerta di un crescente numero di ambiti di azione.

Ogni contratto, infatti, fa riferimento a un formulario, a clausole, definizioni e quantificazioni, a diritti e doveri, ad autorità che si fanno garanti delle obbligazioni e ne sanzionano la violazione. Il fatto che oggi tali dispositivi non siano ascrivibili in maniera esclusiva o preponderante allo stato non deve indurre a pensare alla concretizzazione di uno scenario fatto solo di accordi individuali che si autoregolano. Al contrario, ci troviamo di fronte non a meno ma a più governo, anche se si deve registrare come la trama istituzionale e normativa chiamata a regolare le relazioni sociali e a consolidare i rapporti di forza promani in maniera crescente da soggetti privati o da autority di statuto anfibio, fra pubblico e privato.

Snobismi critici

Un’ulteriore regola del liberismo, secondo Graeber, vuole che «quando si comincia a parlare di libero mercato è buona norma guardarsi intorno e cercare l’uomo con la pistola». Il riferimento è all’accresciuto ricorso alla minaccia e alla coercizione che si accompagna all’ispessirsi del tessuto burocratico-normativo che costituisce il non paradossale portato delle tendenze alla «deregulation».
Nonostante la presenza capillare di telecamere e sistemi di sorveglianza, di guardie e vigilanti, si tratta di una tendenza in genere scarsamente percepita sia per la tendenza, in sede analitica, a sopravvalutare la funzione della componente «simbolica» nelle forme di esercizio del potere sia per il fatto che anche le funzioni repressive e preventive lungi dall’essere riconducibili monopolisticamente agli apparati di stato costituiscono il core business di soggetti imprenditoriali privati. Si potrebbe restare delusi dal libro di Graeber.

Del resto, come ammette il suo stesso autore, il testo non ambisce al rango di trattazione esaustiva sul tema della burocrazia ma si propone il compito più limitato di segnalare l’urgenza teorica e politica di una tematica colpevolmente ignorata dal pensiero critico. Se la destra ha posto la mobilitazione antiburocratica, seppur mistificatoriamente, al centro della propria agenda, la sinistra non sarebbe stata in grado di proporre un approccio all’altezza dei tempi al fenomeno burocratico, oscillando fra la subalternità alle posizioni mercatiste e una difesa dello statalismo sempre più anacronistica.

Violenza in figure

Al fine di promuovere un dibattito sulla funzione della burocrazia nell’era della finanziarizzazione, l’antropologo newyorkese propone numerosi spunti di riflessione attraverso un procedere volutamente rapsodico in cui la dimensione microsociologica si ibrida con questioni più generali quali l’attitudine delle scienze sociali nei confronti del fenomeno burocratico, l’orientamento imposto allo sviluppo tecnologico dalla priorità attribuita alle esigenze di controllo e disciplinamento sociale, i «diritti di prelievo» acquisiti dagli attori in grado di ritagliarsi posizioni di gatekeeper, per esempio nell’ambito delle certificazioni e della valutazione, intercalate da costanti puntualizzazioni riguardo le vicende e le impasse dei movimenti degli ultimi decenni.

Particolare spazio è dedicato alla lettura, alla luce della problematica del libro, di alcuni momenti significativi della cultura popolar-mediatica, da quelle figure all’intersezione fra burocrazia e violenza che sono il poliziotto, l’investigatore, la spia, fino all’immaginario fantasy o ai supereroi. Si tratta di un esercizio che in genere approda a esiti banali e scontati e che, invece, Graeber conduce con notevole arguzia senza mai perdere di vista il suo tema ispiratore. Sullo sfondo delle varie digressioni, infatti, emerge la questione, non solo teorica ma anche politica, della razionalità della burocrazia e il costante invito, teorico e politico, a coglierla nel decisivo contributo che essa offre, unitamente agli strumenti giuridici, finanziari e coercitivi, allo strutturarsi delle macchine estrattive del capitalismo contemporaneo.