Non bisogna farsi ingannare dalle dimensioni di questo volume. Certo, va riposto su una scaffalatura resistente e posato su un tavolo adeguato; la fattura è lussuosa, la rilegatura impeccabile, la riproduzione iconografica superlativa. Di solito non è ciò che si dice di un perfetto «coffee table book»? Se è quello che state pensando, avete sbagliato strada. Caravaggio. La fabbrica dello spettatore, l’ultimo libro di Giovanni Careri (professore ordinario allo Iuav di Venezia e all’École des hautes études en sciences sociales a Parigi), è uno studio impeccabile. Uscito due anni fa in Francia (per i tipi di Citadelles & Mazenod) viene pubblicato ora in Italia (per Jaca Book, pp. 384, euro 150), tradotto e rivisto dall’autore. Anche il titolo, nel passaggio, si ritrova modificato. Da Caravaggio. La peinture et ses miroirs alla Fabbrica dello spettatore. E si ha l’impressione che il termine «fabbrica» calzi perfettamente a questo volume.

COME SI FABBRICA uno spettatore? E un quadro? E un corpo? E di chi stiamo parlando? Di noi che ci accingiamo ad ammirare l’opera del Merisi oppure dello spettatore interno al quadro? Il libro di Careri non ha solo il merito di fare il punto sugli studi caravaggeschi, partendo dalle pagine di Bellori, passando obbligatoriamente per Roberto Longhi, Lorenzo Pericolo, Michael Fried, Pamela Askew e Wolfram Pichler, piuttosto, queste fonti commentate, chiosate, a volte messe in discussione, sono solo il trampolino di lancio per un salto, un corpo a corpo lungo dieci capitoli tra dipinti, testi evangelici, testimonianze storiche, azzardi teorici, aperture visuali, analisi di dettagli. Ed è tutto un vorticare di colori, una rifrazione di immagini, una circolazione di gesti e sguardi.

VALE LA PENA SOFFERMARSI sulla composizione del volume. I dipinti vengono dissezionati, tagliati: in questo senso, l’apparato iconografico non si limita a riprodurre parti di un quadro; questi dettagli sono inquadrature «montate» nella pagina, così come lo erano le fotografie filmate da Umberto Barbaro, nel Caravaggio commentato da Roberto Longhi. Le pagine acquistano allora in dinamismo: ciò che abbiamo davanti agli occhi non è qualcosa di inerte, ma qualcosa di «fabbricato», in grado di produrre una reazione.

ED È QUESTO CHE TENTAVA di fare anche Caravaggio, secondo Careri. Fabbricare significa, ad esempio, rendere più complessa la composizione pittorica. Di più: indeterminata. Creare condensazioni (un montaggio temporale), disgiunzioni interne, che toccherà allo spettatore ricucire, ricomporre. Si prenda l’analisi della Vocazione di San Matteo (1599-1600), tra le pagine più felici del libro. Careri ritrova in questo piano d’azione un autore su cui già aveva lavorato nel suo «berniniano» Voli d’amore. Fa così ruotare la sua analisi partendo da alcune intuizioni sul montaggio come «limite costitutivo», come «misto» dei generi che Sergej Ejzenštejn aveva affrontato nel suo La natura non indifferente.
Nel quadro, il modello della «pittura di storia» (Alberti) viene così alterato, dislocato; un avvenimento evangelico finisce dentro una taverna e, tra il taglio di luce e la gestualità, la cosa più eccitante è che si fatica a capire chi sia il destinatario del gesto del Cristo. E poi: il vecchio? Chi indica? Se stesso? È lui Matteo? O sta indicando la figura in fondo piegata sul tavolo? (formidabile piano ravvicinato sulle sue mani – quasi afflosciate sul tavolo, le monete il cui bordo è filato di bianco, il pollice enorme).

SI PENSI ALLA FAMOSA dichiarazione di Poussin, ripresa da André Felibien (1688): «Non sopportava nulla di Caravaggio e diceva che egli era venuto al mondo per distruggere la pittura», frase su cui Louis Marin incentrerà uno dei suoi libri più ammirati; sono i canoni pittorici che Caravaggio mette a soqquadro. Per far vedere, ma in modo diverso. Giovanni Careri siamo certi si ritrovi in questo gesto arrischiato, che scompagina (vedi il capitolo sulla Deposizione della croce). È uno dei grandi pregi di questo libro.