La storia del mondo nasce nello stesso momento in cui l’idea di storia si mondializza? Sì, secondo il libro di Serge Gruzinski, La macchina del tempo. Quando l’Europa ha iniziato a scrivere la storia del mondo (traduzione di Maria Matilde Benzoni, Raffaello Cortina, pp. 39, euro 28). E ciò avviene quando la cultura europea esporta la disciplina storica nel nuovo mondo. Per conoscere i popoli che si andavano conquistando occorrevano strumenti che non potevano fare a meno di una narrazione temporale. Così nel Messico del XVI secolo viene in soccorso il consolidato strumento della storiografia, secondo i modelli che per secoli si erano sviluppati in Europa. Per la prima volta però, ciò avveniva in un contesto che non era più soltanto quello del vecchio continente, ma un altro che oggi chiameremmo globale.
La peculiarità della ricerca di Gruzinski è quella per cui la storia globale non nascerebbe nel XIX secolo, come più tradizionalmente si ritiene, ma appunto a seguito della conquista spagnola e portoghese delle Indie occidentali nel XVI secolo. Secondo l’autore, gli scritti di Motolinía, Las Casas, de Gómara, Pomar e altri non hanno soltanto ridotto al paradigma storico europeo la comprensione di società diverse, ma hanno anche distrutto e rimpiazzato con la «Storia» i modi precipui che quelle culture avevano di rapportarsi al mondo e costruire la memoria.

PER GRUZINSKI, anche la «storia meticcia», cioè quella scritta da autori che avevano legami diretti con le popolazioni colonizzate, non fa che seguire il tracciato della storia mondiale «all’europea». Così, a partire dal Messico del ’500 «la storia del mondo rimane la storia della modernizzazione, disciplina europea mondializzata al ritmo del capitalismo», scrive.

TUTTO CIÒ è molto persuasivo nel mostrare la macchina occidentale che sta dentro la fabbrica della storia mondializzata. È però anche vero che la storia della modernizzazione non si caratterizza come dominante storiografica esclusivamente a partire dalla colonizzazione dell’America (su questo si vedano le diverse posizioni di uno studioso come Subrahmanyam), ma già nella stessa Europa. Prima dell’ingresso nella «storia all’europea» dei popoli amerindi nel ’500, l’occidente stesso aveva rifatto la sua entrata nella storia. Di «anni zero» nello stabilire nuovi paradigmi storiografici l’Europa ne stava sperimentando diversi e fra loro in conflitto, almeno dalla peste nera del XIV secolo. Ad esempio, gli umanisti avevano riscoperto la storia a partire dall’antichità e questo potenzialmente confliggeva con il cristianesimo.

INOLTRE, QUALE ANTICHITÀ occorreva come guida per la storia? Roma? E quale Roma, quella repubblicana o quella imperiale? I greci? Quali greci? Persino gli etruschi, se facevano al caso, potevano essere arruolati. E cosa pensare delle fantasticate origini ricondotte agli egizi e ai loro legami con i popoli biblici? Che dire poi della stessa storiografia religiosa che vedeva frantumarsi i suoi paradigmi nel coacervo dei conflitti confessionali interni alle riforme e controriforme e la nascita delle storie nazionali? Nel ’400 basterebbe dare uno sguardo all’elenco di civiltà (Islam incluso) menzionate nella celeberrima Orazione sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola per comprendere che il paradigma unico storico culturale europeo stesse esplodendo.

FORSE «LA STORIA all’occidentale» non ha trasmesso al mondo soltanto una versione dell’occidente. Più che un unico modo di fare storia, nel XVI secolo in Messico, viene lasciata un’altra eredità che accumuna oggi più che mai i diversi territori e popolazioni del mondo: il fatto che il tempo, le memorie, le tradizioni si costruiscono come macchine conflittuali che, come le armi materiali, possono produrre effetti distruttivi anche su chi crede di padroneggiarle. A tenere le briglie di questo conflitto, già nel colonialismo del XVI secolo come ricorda Gruzinski, sono però sempre meno gli storiografi e sempre più le forze economiche del capitalismo.