Cosa è stato il razzismo italiano di epoca fascista, quale è stato nell’ideologia e nella pratica il ruolo di Mussolini? Il tema è ancora vivo e in qualche modo lo è in maniera del tutto nuova rispetto al passato. Crediamo si possa dire che gli studi di questi ultimi decenni abbiano seppellito l’idea di un razzismo «inesistente», di seconda mano, adottato non per scelta ma per star dietro a Hitler. Una versione molto in voga nell’immediato dopoguerra e consolidata anche dagli studi di De Felice degli anni sessanta. Ora sappiamo molte cose in più e quest’ultimo libro di Giorgio Fabre, con la collaborazione di Annalisa Capristo, apre un capitolo nuovo dopo Mussolini razzista (uscito nel 2005 da Garzanti), che indagava sulle radici profonde del razzismo del duce, e passando per Il registro (il Mulino 2018), dove si pubblicavano per la prima volta i decreti con cui gli ebrei italiani dipendenti pubblici civili venivano epurati dai ranghi dello Stato. Il libro di cui parliamo si intitola Il razzismo del duce e ha come sottotitolo Mussolini dal ministero dell’Interno alla Repubblica sociale italiana (Carocci editore «Studi storici», pp. 568, e 49,00). E l’accento cade su Mussolini e Ministero dell’Interno perché il saggio, sulla base di una documentazione del tutto nuova (meglio: inesplorata prima) ricostruisce come a partire dai mesi che hanno preceduto le leggi razziste del 1938 o il famigerato Manifesto della razza, Mussolini costruì la macchina persecutoria razzista e antisemita proprio a partire dal Ministero degli Interni.
Siamo nel cuore del potere centrale dello Stato italiano, in cui le regole e le strutture che le faranno funzionare si identificano con il ruolo dello stesso ministro. Il Duce – seguendo una tradizione che lo precedeva – rinuncia solo per pochi anni e per motivi straordinari a occupare il doppio ruolo di capo del governo e di ministro degli Interni (assegnò l’interim a Federzoni solo dopo il delitto Matteotti, perché fossero altri e non lui a condurre la repressione delle proteste antifasciste). La mano ferma con cui Mussolini sovrintende agli affari del ministero (con la mediazione di Buffarini Guidi, sottosegretario e factotum fedelisssimo) si manifesta anche nel caso delle norme razziste e del passaggio da un antisemitismo ideologico, che compare carsicamente nel suo pensiero fin dagli anni venti salvo poi opportunisticamente insabbiarsi, a un «antisemitismo burocratico».
È interessante vedere come il primo spostamento a favore degli Interni interviene su un tema apparentemente staccato: quello del Culto, dei rapporti con la Chiesa e con le altre religioni. Mussolini trasferisce le competenze dal Ministero di Grazia e Giustizia al suo. Il tema è doppio: tenere sotto controllo gli ebrei e insieme presidiare un’area, quella del rapporto con il Vaticano, nel quale Mussolini temeva ripercussioni negative alle nuove spinte razziste che si stavano preparando.
Accanto alla direzione del Culto si rafforza e cambia faccia quella dedicata alla demografia, che diviene rapidamente la «Demorazza» (espressione orribile che mette insieme la demografia e la razza), e creando all’interno del ministero prima una, e dopo una serie di «commissioni» delegate a preparare la normativa razzista, e poi a sovrintendere al complicato percorso delle «discriminazioni» (parola quasi paradossale, che indicava i casi di italiani ebrei che venivano esclusi dalle politiche discriminatorie per meriti fascisti, perché ritenuti «ariani» ecc.), dei beni confiscati; fino alla formazione di un Tribunale della razza. Si tratta di un apparato tenuto quasi sommerso: a Mussolini non interessava, qui, tanto la grancassa propagandistica quanto l’efficacia burocratica. Di queste commissioni si avevano tracce vaghe: Fabre ne ricostruisce le composizioni, gli «arrivi» e le uscite sulla base dei decreti di nomina, persino dei compensi ricevuti da questi alti burocrati (25 lire a seduta). E ricostruisce anche le carriere di questo gruppo di alti funzionari, quasi tutti prefetti di prima e di seconda classe, con l’inserimento di qualche direttore generale e con qualcuno di loro (De Ruggiero) assurto anche al ruolo di senatore di nomina regia.
Quella che viene messa in piedi è una macchina efficiente, fedele ma non necessariamente fanatica, che risponde direttamente a Mussolini e a Buffarini Guidi. Sulle carte licenziate, sui casi più spinosi non di rado compare la «M» scritta con la matita blu da Mussolini, che vistava le decisioni, che suggeriva cambiamenti, che controllava le minute. È interessante osservare come il razzismo degli Interni, che giustamente Fabre chiama «burocratico», sia perfettamente coerente col razzismo personale di Mussolini che ci appare come uno strumento pienamente «politico». Non che il duce non avesse idee razziste, al contrario; ma si comporta come un uomo politico che usa la leva del razzismo all’interno dei suoi obiettivi politici e lo fa coinvolgendo pienamente lo Stato italiano.
Certo di razzismo si occupava anche il PNF, alcuni ministeri come quello della Cultura Popolare, o singole figure di giornalisti e intellettuali come Evola o Interlandi con i loro scritti e le loro riviste. Ma Mussolini contava davvero solo sul Ministero degli Interni e aveva con le spinte razziste che gli arrivavano da fuori un rapporto, ancora una volta, politico: i sì e i no che diceva a queste sollecitazioni erano legati soprattutto all’affermazione di una idea di razzismo che fosse persecutoria e dura senza aggiungere elementi che portassero a rotture con la Chiesa. Persino nel rapporto col razzismo nazista Mussolini seppe con chi tenere rapporti (apparendo persino un sincero razzista e un «vero nicciano» agli occhi di Goebbels) e con chi no: questo secondo caso riguardò soprattutto gli uomini di Rosenberg e i portabandiera di quell’antisemitismo biologico, nordico che tanto stonava alle orecchie degli italiani.
Ma «razzismo politico» e «razzismo burocratico» non sono affatto due varianti attenuate del razzismo che portò i fascismi allo sterminio. Leggendo la valanga di delibere della Corte dei Conti citate, torna alla memoria un libro di Zygmunt Bauman su Modernità e Olocausto (uscito in Italia nel 1992 per il Mulino). Qui il sociologo ebreo polacco annotava come i caratteri che trasformarono l’antisemitismo pre-novecentesco in quella straordinaria ed efficiente «fabbrica della morte» erano contenuti in due elementi legati a doppio filo con la modernità: la capacità organizzativa della burocrazia e quella industriale della technè. Solo a queste due condizioni la violenza occasionale dei pogrom, che si sviluppavano come fiammate, poté trasformarsi in persecuzione e sterminio.
La politica razzista e il legame tra questa, con il ruolo di Mussolini, e il Ministero degli interni, è una strada che portò dal 1937-’38 alla Repubblica Sociale, con progressivi inasprimenti e qualche conflitto interno col partito. In questa strada compare il caso Morpurgo, con le sue controversie e la sua definiva chiusura con la deportazione. Oscar Morpurgo apparteneva a una famiglia anconetana nazionalista e con un passato militare che andava dalla prima guerra mondiale ai conflitti coloniali e infine alla guerra di Spagna fascistissima e ben nota a Mussolini. Una famiglia che aveva chiesto, ottenuto e poi perso la «discriminazione» e l’«arianizzazione». Nel 1944 Oscar è a San Vittore e chiede ancora di essere rilasciato, invocando la sua arianità sancita anche da una sentenza del Consiglio di Stato. Qui Mussolini verga ancora una volta su due documenti la sua «M» blu per chiudere la partita a sfavore di quest’uomo, messo nelle mani dei nazisti e spedito ad Auschwitz, dove sarà ucciso. Quella «M» che avevamo visto così spesso sui documenti, che era stata persino un vezzo autocelebrativo sotto le scritte sulle case cantoniere con le tronfie frasi mussoliniane, ora ci appare in una luce ben più realistica e tetra. È la «M» di Mörder, assassino, come nel film di Fritz Lang in cui viene segnata col gesso sulla schiena del «Mostro di Düsseldorf». Per chi avesse ancora dei dubbi sulle responsabilità dirette e autonome di Mussolini nella costruzione di un razzismo di Stato e infine nella Shoah, questo libro cancella ogni incertezza.

Non si può evitare a questo punto un’annotazione: la fine del fascismo, la Liberazione, la nascita del nuovo Stato mostrano in queste pagine una debolezza straordinaria. Pochi tra i burocrati responsabili della politica razzista hanno subito l’epurazione (e talvolta più per le accuse di corruzione che per esser stati razzisti). Succede a nomi oggi dimenticati, come quelli dei prefetti Le Pera e La Via. Invece due alti magistrati, che parteciparono alle commissioni della «Demorazza» e al Tribunale della Razza, non solo non furono epurati ma finirono persino per esser nominati, dal presidente Gronchi, Giudici della Corte Costituzionale, e Azzariti, com’è noto, ne divenne addirittura presidente. La questione della razza e della partecipazione italiana alle persecuzioni e infine allo sterminio apparivano allora lontani, tanto che nelle carte messe in luce da Giorgio Fabre in questo libro ne compare persino una in cui si dice, a proposito della «Demorazza», che l’appartenenza al Tribunale della razza non può «costituire motivo a procedimento di epurazione».
Tanto era solida nel fascismo la compenetrazione tra Stato e razzismo quanto fu debole, almeno all’inizio della Repubblica, il nesso tra nuovo Stato e ripudio del razzismo. Non è un tema da poco, perché gli stati hanno nella burocrazia la trama e l’ordito della loro stessa continuità.