Nel maggio 1994 Michele Sarfatti pubblicava da Zamorani, editore specializzato in storia della persecuzione antiebraica, la prima edizione di Mussolini contro gli ebrei. Renzo De Felice era già malato, ma ancora attivo e dirigeva la sua rivista, «Storia contemporanea». E molto incisivo era lo stuolo dei suoi allievi, esponenti dell’establishment accademico e collaboratori di vari giornali. Mussolini contro gli ebrei metteva profondamente in crisi, soprattutto grazie alla precisione e all’incontestabilità della documentazione, le tesi dello storico del fascismo, in particolare la sua Storia degli ebrei. Era una svolta in questo campo, anche di metodo. La reazione fu un silenzio greve sul libro di tutta la potente scuola defeliciana. L’anno dopo De Felice pubblicò il famoso Rosso e Nero (Baldini e Castoldi) su Mussolini e il fascismo, ignorando del tutto questo libro. Si ricorda solo, per converso, una recensione appunto dell’allora nemico di De Felice, Nicola Tranfaglia, su Repubblica. Ma la vita del libro di Sarfatti fu assai difficile.

Egli aveva ricostruito con estremo dettaglio – spesso avendo recuperato carte autografe e lavorando sugli originali – tutte le prese di posizione e le concrete azioni persecutorie del capo del fascismo verso gli ebrei nel 1938: compresa l’elaborazione del Manifesto della razza (l’attribuzione era praticamente una novità) e la preparazione accurata delle leggi antisemite.

Dalla ricostruzione emergeva che il duce aveva condotto di persona un lavoro di una complessità enorme e Sarfatti, passo passo, lo aveva seguito – per quanto era stato possibile – nelle sue varie fasi, con documenti originali e interpretazioni assai innovative. È ovvio che a uno storico come De Felice, che aveva puntato a dimostrare come nel 1938 Mussolini avesse «discriminato» gli ebrei, più che «perseguitarli», una ricostruzione del genere potesse dare fastidio. In un certo senso, Sarfatti agì da «revisionista» nei confronti dello storico italiano accreditato come il massimo esponente italico del revisionismo storiografico. Se ne accorse George Mosse, che fino ad allora sul fascismo italiano aveva seguito in tutto De Felice. Rapidamente (e morto De Felice nel maggio 1996), Mosse fece uno scarto e nel ’97 dichiarò che su antisemitismo e razzismo non dava retta «fino in fondo» allo storico reatino e qualche anno dopo certificò che riteneva Mussolini «un convinto razzista».

Oggi, a quasi un quarto di secolo dalla prima uscita, presso lo stesso editore Sarfatti pubblica una nuova edizione ampliata di Mussolini contro gli ebrei (Zamorani, euro 28,00), 217 pagine invece di 199 e con un corpo più piccolo, in cui aggiunge e illustra diversi nuovi episodi dell’antisemitismo di Mussolini nel 1938: alcuni recuperati e ridiscussi in base ai nuovi studi pubblicati nel frattempo, altri ricostruiti in maniera inedita. Chiude il volume un capitolo sul censimento degli ebrei dell’agosto ’38, che non contiene novità rispetto al ’94.

Il risultato della seconda edizione è la dimostrazione – ancor più forte di quanto si sapesse o si potesse intuire – dell’impegno antisemita di Mussolini: che, come è noto, era un lavoratore indefesso e veloce, ma fu davvero impressionante per l’attenzione e la cura con cui predispose il terreno e poi preparò le nuove leggi contro gli ebrei. Rispetto a vent’anni fa, sappiamo ora che nel 1938 scrisse articoli (in forma anonima) sulla campagna razzista; allertò con anticipo, un mese prima del Manifesto, i ministeri che avrebbero dovuto agire; si preoccupò, fin dal novembre 1937, di avvertire i nazisti della campagna antisemita che si andava preparando in Italia. Si fece affiancare da alcuni «tecnici», i cui ruoli però sono ancora piuttosto opachi; e poi da qualche politico; ma fu lui a ideare e a guidare tutta l’operazione, con fermezza e talora perfino con estrema durezza: come oggi si vede bene dal modo in cui trattò, perfino sbeffeggiandoli, papa Pio XI e la Chiesa.

Viene da dire, quasi in automatico, che tutta questa operatività non poteva essere nata come un fungo, tra la fine del ’37 e quella del ’38. Mussolini agiva in maniera molto diversa da Hitler: era metodico, aveva tempi lunghi di preparazione e di elaborazione, più volte sperimentava e talvolta tornava sui suoi passi, come fece anche nel 1938, quando – a febbraio – preparò il dettaglio dell’azione razzista con cinque-sei mesi di anticipo. Lo aveva fatto anche in altri campi: nel fondamentale e delicatissimo terreno corporativo, che richiese anni di preparazione; o in quello della censura dei libri. È plausibile, quindi, che la preparazione sia stata molto più lunga, anche se magari non continuativa, come del resto anche nel 1938.

In effetti, da altre ricerche è emersa una diversa interpretazione del periodo che anticipò le leggi contro gli ebrei, una preparazione che risale più indietro nel tempo rispetto al 1936-’38. Sarfatti ne accenna, ma concentra la sua analisi sul periodo della persecuzione «pubblica». Eppure è ormai ampiamente documentato che eliminazioni specifiche di ebrei da vari posti di responsabilità furono ordinate a partire dal 1933-’34: accadde nei comuni, nelle province, nei sindacati, negli ospedali, in qualche caso nelle università. Mussolini poté predisporre con cura, ben soppesando e con altri stop and go prima del fatidico 1938, il terremoto che provocò con le leggi razziste. Non solo ci pensò, ma eliminò. È una vicenda su cui continua a emergere nuova documentazione, ma il quadro complessivo di questo «prequel» è chiaro e ineludibile.

Eppure, anche con questi limiti, il libro di Michele Sarfatti continua a restare un piccolo capolavoro della storiografia del Novecento, in una materia difficile e ancora controversa come quella delle leggi razziali. Oggi, questo campo storiografico è diventato un campo di battaglia, soprattutto per le lotte e per le carriere accademiche, e la qualità della ricerca è andata in caduta libera. È naturale che quel libro sia ancora, per molti aspetti, un modello.