«Finalmente il muro dell’omertà è crollato». Così Ilaria Cucchi l’11 ottobre scorso ha commentato la testimonianza-confessione in cui uno dei carabinieri imputati ha accusato due suoi colleghi del pestaggio del fratello Stefano.

Un barlume di speranza non solo per chi ha seguito o è stato coinvolto emotivamente nella vicenda, ma per tutto il paese che così può tornare quantomeno a sperare in un rapporto più trasparente tra gli organi di sicurezza e i cittadini.

Non che sia stato un traguardo semplice da raggiungere. Anzi, quella di Stefano Cucchi è una storia lunga dieci anni e numerosi processi.

Ora questa vicenda è entrata in una graphic novel di solido impianto civile: Il Buio. La lunga notte di Stefano Cucchi (Round Robin, pp. 124, euro 15). Autori: Emanuele Bissattini, Floriana Bulfon, Domenico Esposito, Claudia Giuliani.

È il racconto del lungo e travagliato percorso che ha portato allo smascheramento della verità preconfezionata da chi non voleva che si ficcasse il naso in una storia che emanava puzza di bugie e sopraffazioni da qualunque angolo la si guardasse.

Eppure non mancano in un caso come questo le parole di esponenti politici e opinionisti vari che hanno definito Cucchi un «tossicodipendente», «uno spacciatore» che «aveva fatto uso di eroina, cocaina e varie altre droghe», dunque non era capace di gestire il proprio corpo e si è consegnato, per così dire a braccia aperte, alla morte.

Un pensiero grottesco, eppure ancora oggi circolante fra alcuni esponenti delle nostre istituzioni.

I MEDICI

Il primo capitolo del libro si intitola «I Medici», i primi ritenuti responsabili della morte di Cucchi. Evento inspiegabile, paradossale, eppure più che possibile in una realtà come l’Italia di questi anni.

Ma, subito dopo la sentenza del giugno 2013, sono parecchi a chiedersi: come si può condannare solo chi doveva prestare soccorso quando muore un uomo arrivato in ospedale pieno di ecchimosi e di lividi, con la schiena «color melanzana», come disse uno dei pochi che la vide?

Alla morte per «inanizione», cioè per «fame e per sete» diventa un refrain sempre più insostenibile e insopportabile.
«Mio fratello non è morto di malasanità», dice Ilaria Cucchi, dando voce a un pensiero generale.

Ne il Buio sono raccontate anche le tre visite che i genitori di Cucchi compiono alla sezione giudiziaria dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma, venendo ogni volta rimandati via con una scusa diversa e il tono ultimativo e arrogante.

La procura di Roma riapre le indagini. I giornalisti d’inchiesta si mettono al lavoro.

Lentamente, anche grazie a qualche pentito che ha deciso di rompere il muro di omertà, iniziano a trapelare alcuni frammenti più attendibili su quanto successo nella notte del pestaggio e nelle ore successive in cui Cucchi è stato abbandonato a se stesso.

IL RACCONTO

Questo racconto a fumetti però non è solo la cronaca di una delle tante morti di Stato di cui è intessuta la storia di questo paese, ma anche di quelle persone, giornalisti, medici, familiari, avvocati, magistrati, uomini e donne (con in testa la famiglia di Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo) che non si sono arresi di fronte alle troppo smaccatamente artefatte verità preconfezionate in fretta e furia e senza neanche troppa sagacia.

Ma è anche il racconto di un risveglio, di un ritorno alla coscienza di sé di una parte dell’opinione pubblica non assuefatta, non addolcita, non predisposta a lasciarsi abbindolare.

Quella che un tempo si chiamava società civile ed era capace di mettere al lavoro la propria intelligenza collettiva per indagare ed elaborare una verità diversa da quella ufficiale, in cui i ruoli si rovesciano, i buoni diventano meno buoni, i brutti, sporchi e cattivi molto più simili a noi di quanto si potrebbe pensare a prima vista, seguendo il buon senso comune.

Un percorso che un tempo era consuetudinario e oggi invece è eccezionale.
Eccezionale è stato, se commisurato ai tempi che stiamo vivendo, lo sforzo di tante donne e uomini per addivenire ad un’altra verità condivisa sulla vicenda di Stefano Cucchi.

Dopo Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, il film targato Netflix e interpretato da Alessandro Borghi, ora con Il Buio si compie un altro passo in avanti nella ricostruzione di questo fatto gravissimo e ancora da chiarire del tutto della nostra storia recente.

Un film per la tv e una graphic novel, due strumenti diversi per chi era abituato ai documentari collettivi, ai film di denuncia, ai romanzi a chiave, ai saggi d’inchiesta. Due mezzi espressivi che probabilmente oggi possono meglio svolgere quella funzione «civile» un tempo demandata a scrittori e registi del cinema-cinema.

In un panorama editoriale asfittico, segnato dall’ennesima dimostrazione di pigrizia e imperizia di produttori e editor nell’intraprendere sentieri che non siano quelli paludati dei gialletti o dei drammoni sulle coppie di quarantenni in crisi, si riparte da film a basso costo per la tv e dai fumetti per raccontare storie non normalizzate per un pubblico restio a farsi intrappolare nella noia e nel già visto.

E se lo sarà anche questo sarà un segnale nient’affatto da sottovalutare.