Possiamo continuare a chiamare Sei Nazioni questa ventiduesima edizione del più antico torneo del mondo? Per molti aspetti sì, possiamo farlo. Eppure, sotto un profilo tecnico, sarebbe più giusto parlare di Cinque Nazioni più una. Ci sono le cinque squadre che dal 1910 a oggi (e prima ancora, dal 1883, le sole quattro home unions) hanno scandito la storia del rugby nell’emisfero boreale. E una sesta, l’Italia, che si è guadagnata sul campo l’accesso a questo torneo nell’anno 2000 e che per un decennio abbondante è riuscita a galleggiare nella zona bassa della classifica prima di inabissarsi.

L’ultima vittoria degli azzurri nel torneo risale al 28 febbraio 2015, quando la squadra andò a vincere a Edimburgo, dopo di che le cose sono andate di male in peggio e sono state solo sconfitte. Le cifre non mentono. Nelle ultime cinque edizioni la nazionale italiana ha segnato un totale di 344 punti subendone 973, per una media di 13,7 punti a partita contro 39 e in una sola occasione (2018) è riuscita a conquistare almeno un punto di bonus. Detto in altre parole, le Cinque Nazioni disputano il loro torneo e ognuna di loro sa di giocare un incontro contro l’Italia che sarà un match no contest causa manifesta superiorità. La prima giornata del Sei Nazioni 2021 ha pienamente confermato la tendenza: la sfida contro la Francia allo stadio Olimpico si è chiusa sul punteggio di 50-10 per i transalpini che hanno messo a segno ben 7 mete contro una sola italiana.

Una lunga notte

Dunque è Cinque Nazioni più Una. Sulle tante ragioni del declino del rugby italiano sono stati versati fiumi di inchiostro e non è il caso di tornare. Sappiamo però che in questi ventuno anni sulla panchina azzurra si sono succeduti ben sei allenatori, tutti partiti con buone intenzioni ma poi costretti ad alzare bandiera bianca. Il settimo, Franco Smith, ha preso atto della realtà dei fatti e ha deciso di puntare sui giovani e sulla prospettiva di una crescita a medio-lungo termine. Anche questa scelta, però, rischia di bruciarsi in breve tempo. Il motivo: per quanto i nostri giovani possano crescere tecnicamente e fisicamente, gli altri crescono più rapidamente e in numero maggiore. In pratica significa che per ogni buon giocatore che emerge dalle nostre Accademie e dai vivai dei club ce ne sono almeno altri cinque per ognuna delle nostre avversarie e sono tutti più bravi e più forti dei nostri campioncini. Anno dopo anno l’asticella si alza e recuperare il gap è sempre più arduo.

Prendere atto di tutto questo può attenuare le delusioni ed evitare i commenti aciduli che seguono ogni sconfitta o i troppi annunci roboanti che precedono ogni inizio di stagione. Quella che il rugby italiano sta vivendo è una lunga notte e l’alba è ben di là da venire.

Se il gioco non avesse imboccato nel 1995 la strada del professionismo oggi l’Italia potrebbe sperare in un destino simile a quello della Francia, che nel 1910 fu ammessa nel torneo e per anni collezionò sconfitte, ma riuscì a crescere di stagione in stagione e nel 1954 conquistò il suo primo titolo. Oggi non è più così semplice: il rugby professionistico è un sistema che produce giocatori sempre più simili a moderni gladiatori, imponendo loro ritmi di lavoro e impegni massacranti. E’ un salto di prospettiva che non tutte le federazioni (e nemmeno i club) riescono a reggere e quella italiana è tra queste. Per quanto si possa insistere in concetti quali il work rate o “intensità”, la sostanza è una sola: il rugbista professionista è una macchina alla quale sono richieste prestazioni sempre più elevate e vicine ai limiti sopportabili dal corpo umano.

Un rugby totalitario

Era proprio inevitabile che con la svolta professionistica il gioco diventasse questo? Forse no, ma il rischio c’era e le inebrianti ragioni del fatturato hanno indirizzato in un’unica direzione tutte le scelte che sono state compiute in questi venticinque. Il rugby professionistico è divenuto un rugby totalitario: o è così o non è; e se non si segue la strada tracciata – impegni continui, allenamenti quotidiani, stress e logorio – si è fuori.

Abbiamo visto crescere a dismisura le masse muscolari e la velocità. La potenza e la quantità degli impatti hanno raggiunto livelli che dovrebbero destare allarme e che nessun protocollo per le concussion (rischio di commozione cerebrale) può alleviare. E’ del dicembre scorso la notizia che un gruppo di otto giocatori professionisti, tutti al di sotto dei 45 anni di età, ha deciso di citare in giudizio World Rugby. Tutti e otto soffrono di “demenza a insorgenza precoce” a causa dei troppi traumi cerebrali accumulati nel corso della loro carriera e tutti pensano che le loro federazioni non abbiano fatto quanto era necessario per proteggerli di rischi. Tra di loro c’è Steve Thompson, campione del mondo nel 2003 con l’Inghilterra. Di quel giorno, di quella finale vinta contro l’Australia e di tutto quanto accadde prima, durante e dopo la partita, Thompson dice di non rammentare più nulla: “Ho rivisto in televisione quella partita e mi sono reso conto di non ricordare nulla di ciò che stavo guardando”.

Per lui, come per gli altri giocatori, la diagnosi parla di probabile “encefalopatia traumatica cronica”. Tutti loro appartengono alla prima generazione del rugby professionistico; per quelle successive, e per i danni che potrebbero avere subito, dovremo aspettare qualche anno. Nel frattempo, dopo il clamore iniziale, su tutta la vicenda e sui suoi sviluppi è sceso il silenzio.

Gli azzurri a Twickenham

Domani l’Italia è attesa dagli inglesi sul loro campo (DMax 15:15, streaming su Discovery +). Il XV della Rosa è campione in carica ma sabato ha subito una cocente sconfitta in casa da parte della Scozia. Era dal 1983 che gli scozzesi non conquistavano la Calcutta Cup andando a vincere a Twickenham e il tonfo inglese si è avvertito ovunque. Gli uomini in bianco restano favoriti insieme alla Francia ma anche questa volta non potranno fare il grande slam e la critica britannica non ha usato parole tenere nel commentare il match.

Con gli azzurri sarà un’altra cosa: una partita in discesa che per i giocatori guidati da Eddie Jones non presenta troppi rischi. Smith deve rinunciare a Zanon e rilancia Carlo Canna nel ruolo di primo centro. Agli azzurri si può augurare più attenzione in difesa, meno placcaggi sbagliati, maggior disciplina e poco altro. Sono lì per crescere e fare esperienza.

Inghilterra: Daly; Watson, Slade, Farrell, May; Ford, Youngs; B. Vunipola, Curry, Lawes; Hill, Itoje; Sinkler, Cowan-Dickie, M. Vunipola.

Italia: Trulla; Sperandio, Brex, Canna, Ioane; Garbisi, Varney; Lamaro, Meyer, Negri; Sisi, Lazzaron; Riccioni, Bigi, Lovotti.

A seguire c’è la sfida del Murrayfield di Edimburgo tra Scozia e Galles (MotorTrend, 17:45, streaming su Discovey +). Entrambe le squadre hanno vinto la loro prima partita. Gli scozzesi, come abbiamo visto, strappando un entusiasmante successo contro l’Inghilterra, mentre il Galles ha vinto di misura in casa contro un’Irlanda che ha disputato più di un’ora del match con un uomo in meno per un cartellino rosso a O’ Mahony.

Domenica tocca a Irlanda-Francia (MotorTrend, 16:00, diretta streaming su Discovery +).