Che il 1989 abbia cambiato la carta geopolitica del mondo è acclarato, al di là dei giudizi di merito. Non è altrettanto evidente che quell’evento – il cosiddetto «crollo del Muro», e i susseguenti avvenimenti sino allo scioglimento dell’Urss alla fine di dicembre 1991 – comportò conseguenze culturali rilevanti, a loro volta foriere di esiti politici. Prima fra tutte, l’ondata revisionistica, che ha attaccato tutto il plurisecolare ciclo rivoluzionario, dalla Bastiglia, alla Rivoluzione d’Ottobre, al biennio rosso post Grande guerra, sino alla rivoluzione antifascista, cercando sistematicamente di svilirne il significato prima e poi di ribaltare il giudizio storico su ciascuno di questi eventi.

Ribadiamo intanto la distinzione tra revisione e revisionismo. La prima è una pratica ineludibile della ricerca storica, ossia la correzione, l’aggiunta, l’integrazione sulla base di nuovi documenti, o del perfezionamento delle tecniche della ricerca, o, infine, della capacità soggettiva dei singoli studiosi di porre domande nuove; mentre il revisionismo è un orientamento culturale, che nasce sul terreno della storiografia, si allarga, e, progressivamente, si trasforma in una ideologia politica. Se in Francia il revisionismo ha preso di mira soprattutto la Grande Révolution del 1789, in Italia e Germania, le potenze sconfitte nella Secondo conflitto europeo, esso ha affrontato essenzialmente il nodo «fascismo, antifascismo, Resistenza». In Germania Ernst Nolte non attese l’89, aprendo la controversia sul cosiddetto «passato che non passa», volta a durare a lungo, che, nelle sue intenzioni, doveva cancellare il senso di colpa dei tedeschi, rovesciando la frittata: la colpa originaria era dei bolscevichi, a cui semplicemente il nazismo aveva dato una risposta, per la quale l’Europa tutta doveva esprimere gratitudine, anziché riprovazione, a Hitler, a dispetto dei suoi «eccessi», condannabili, per aver fermato il comunismo.

Anche il padre del revisionismo di casa nostra, Renzo De Felice, aveva avviato per tempo il proprio cammino, fin dal primo volume della sua monumentale biografia di Mussolini, a metà degli anni Sessanta. Da allora fu una corsa in discesa, prima verso il giustificazionismo, poi verso una vera e propria rivalutazione del fascismo. Se confrontiamo le due principali esternazioni pubbliche dello storico l’Intervista sul fascismo, del 1975, e Rosso e nero, del 1995, capiamo bene la fuoruscita del revisionismo, dalla storiografia alla politica. In quei vent’anni v’è, appunto, lo spartiacque del 1989: il «crollo»; in Italia, la Bolognina. La battaglia contro l’asserita «egemonia» della sinistra aveva segnato intanto un primo punto a suo favore con la pubblicazione di un’opera importante di uno studioso di fede democratica, con un passato partigiano, Claudio Pavone, Una guerra civile, che appare nel 1991.

Benché quel grosso volume parlasse di tre distinte guerre, quella di liberazione nazionale, quella sociale, ossia di classe, e, infine, la guerra civile, fu quest’ultima a cancellare le altre due, con la destra che gongolava: «Noi lo dicevamo! Fu una guerra civile… Avete dovuto attendere che fosse un nome “di sinistra” a scriverlo, per crederci?». Ovviamente l’utilizzo del libro di Pavone si limitava pressoché esclusivamente al titolo, sebbene l’autore spiegasse che quello era soltanto il sottotitolo, mentre il titolo da lui proposto all’editore (Bollati Boringhieri), era Saggio storico sulla moralità della Resistenza. Si trattò comunque di un’apertura di credito, sia pure involontaria, verso quell’ambigua espressione («guerra civile»), che ha senso fino a un certo punto: era evidente, ad esempio, che la guerra sociale era anche una guerra civile, e che comunque enfatizzare il concetto implicava l’idea che vi fosse un’equa divisione di forze e altresì una equiparabile legittimità dei combattenti. Mentre così non era né sul primo piano, né sul secondo.

L’uso ideologico del libro di Pavone produsse effetti direttamente politici. Luciano Violante, nel discorso di insediamento alla presidenza della Camera (aprile 1996), accreditò i «ragazzi di Salò». Marcello Pera, ancor prima di diventare presidente del Senato, sostenne che era tempo di finirla con la «Repubblica nata dalla Resistenza».

Insomma, a dispetto degli studi rigorosi portati avanti da storici seri, fu il revisionismo a prevalere, con lavori di seconda o terza mano, e soprattutto sui media. Diventò una moda la polemica contro la «vulgata antifascista», insistendo sul carattere minoritario dei resistenti, sulla distinzione tra fascismo e nazismo, e soprattutto menando furiosi colpi ai comunisti italiani, colpevoli «a prescindere».

Infine cominciarono a circolare due parole d’ordine: la «morte della patria» (l’8 settembre ’43) e la «zona grigia», divenendo presto uno stucchevole mantra. Se con la prima si dava il colpo decisivo allo stesso avvio della Resistenza, insinuando che la patria vera fosse quella monarco-fascista, con l’altra, la «zona grigia», si lodavano gli italiani che non si schierarono, che avevano come unico scopo sopravvivere, indifferenti alla contesa tra «rossi» e «neri». I revisionisti distribuirono «equamente» torti e ragioni: nasceva la retorica della «memoria condivisa», in nome di una «pacificazione» adeguata al clima postcomunista e neoliberale.

Era ormai avviata la contronarrazione della Resistenza. L’antifascismo, tanto più se di matrice comunista, era sul banco degli imputati. La lotta armata veniva additata come un insieme di azioni inutili, quando non addirittura controproducenti.

Poi, la polemica revisionistica investì le «vendette» del post-25 aprile. Il soffermarsi sui «crimini» dei partigiani (idest, comunisti), implicava una totale disattenzione ai contesti: in Italia, come altrove, all’indomani della fine del conflitto, vi furono regolamenti di conti spiegabili alla luce degli eventi e dei contesti. Invece, ora della lotta partigiana rimaneva soltanto il sangue: quello dei vinti, per riprendere il titolo del primo volume di Giampaolo Pansa, che da allora diede avvio a una saga antiresistenziale; il suo successo fu una prova della raggiunta egemonia del revisionismo, nella sua forma più estrema, il «rovescismo». L’anti-Resistenza divenne un prodotto a fini commerciali, oltre, e forse prima ancora, che politici. Il punto di non ritorno in questa vicenda fu l’istituzione, nel marzo 2004 con voto condiviso, del «Giorno del ricordo»: la narrazione delle foibe, divenne il cuore della costruzione di un senso comune antiresistenziale, anti-antifascista e soprattutto anticomunista.

Sbaglierebbe a considerare tutto ciò un fenomeno italiano. E ancor più se pensasse che si tratta di materiale per la futura storia della cultura. Basti uno sguardo all’Europa, dove accanto alla rinascita di movimenti politici di destra estrema, o dichiaratamente neofascisti e neonazisti, abbiamo potuto vedere in questi ultimi anni prese di posizione istituzionali agghiaccianti, a partire dalle ultime polacche, che hanno negato addirittura il ruolo dell’Armata Rossa nella liberazione del Campo di Auschwitz; o alla legislazione ungherese che sta non solo «riscrivendo» la storia del paese, a uso di un’affiliazione ideologica al più estremo neoliberismo, ma sta applicando misure punitive verso coloro che abbiano avuto qualsiasi tipo di connessione col comunismo; o, ancora all’Ucraina, dove addirittura i neonazisti sono al potere, accanto a forze «liberali», con la connivenza di Usa e Ue, e si vietano addirittura i simboli del comunismo, e immagino, presto si riaccenderanno i roghi dei libri.

Un elenco di miserie intellettuali che sono tuttavia vittorie politiche. E tutto ciò, ricordiamolo, è anche esito del revisionismo, scatenato, nella sua ultima versione «rovescista», precisamente dal crollo del 1989.

Oggi celebrare il 70° della Liberazione dovrebbe implicare forse innanzi tutto l’avvio di una controffensiva culturale. Vogliamo provarci?