La insistenza sul deficit di democrazia è un luogo comune nel dibattito sul processo di integrazione europea. Per tutta la vasta letteratura esistente basti qui richiamare l’indagine particolarmente propositiva di Philippe Schmitter, che ha sviluppato una riflessione sistematica sulla cittadinanza, la rappresentanza e il processo decisionale (Come democratizzare l’Unione europea e perché, Il Mulino). Il politologo americano rimane perfettamente consapevole della impossibilità di andare oltre la soglia di quelle che egli stesso chiama «modeste riforme». L’Unione europea non è uno Stato e quanto meno una Nazione e l’idea e la pratica della democrazia sono impensabili e inscindibili dal quadro storicamente determinato dello Stato nazione nel pieno controllo della sua sovranità1. Forse anche in ragione della crisi mi sembra che sia oggi assai più chiaro come il tema del deficit di democrazia sia trapassato, a partire da Maastricht, in quello ben più radicale della crisi della politica.

La creazione della moneta unica rappresenta nella storia della costruzione europea la prima vera devoluzione di un aspetto fondamentale della sovranità nazionale. Ma il beneficiario di questo nuovo e decisivo potere sovranazionale è una banca europea che nella stessa costituzione viene definita per la sua indipendenza, ossia per la sua non responsabilità democratica rispetto alle altre istituzioni della Ue, e per la limitazione dei suoi compiti al mantenimento della pura e semplice stabilità dei prezzi. Gli stati nazionali rinunciano alla prerogativa fondamentale del governo della propria economia a favore di un organismo che viene preventivamente spogliato di qualsiasi dimensione politica di tipo federale.

La gabbia delle regole

Sparisce a livello nazionale il potere, tutto politico, di governo della domanda interna, senza che una prerogativa analoga si ricostituisca a livello federale. A partire da questo gap prende corpo come è noto la incontrollabilità della crisi. La Bce assume il mercato come obbligato punto di riferimento nel governo della moneta approdando ad una paradossale ricreazione del regime di Gold Standard che ha governato l’Europa fino al 1914. Il nuovo liberismo non ha nessuna visione naturalistica del mercato, come qualcosa che nasca e si riproduca spontaneamente in virtù delle sue stesse forze. Il credo ottocentesco del «mercato autoregolato» ha lasciato il posto alla consapevolezza che il mercato sia obbligatoriamente una costruzione politica che va difesa e protetta ma – e questo è il punto essenziale – non attraverso il succedersi di decisioni discrezionali, bensì sulla base di un sistema impersonale di regole. (…)

La distinzione tra Stato e governo che si accampa al centro della ricerca di Michel Foucault alla fine degli anni Settanta colpisce oggi per la sua impressionante capacità di anticipare la logica della governance europea in cui viviamo immersi. Si tratta di un «metodo» che ha la sua specificità «nell’aggirare l’istituzione passandole dietro, per cercare di fare emergere ciò che, a grandi linee, si potrebbe chiamare una tecnologia di potere». Tecnologie e dispositivi come forme di potere alternative, o «parallele», rispetto a quelle che scaturiscono dalla rappresentanza politica. (…)

Politica dell’austerità e crisi della politica avanzano dunque mano nella mano non solo per i contenuti sociali punitivi che vengono posti in essere, ma anche per la introduzione di procedure di potere che mettono tra parentesi lo Stato nazione prefigurando una legalità sempre più scissa da ogni forma di legittimità democratica. Le «regole» Ue che Maastricht ha cominciato a fissare non solo si scontrano con il costituzionalismo europeo uscito dalla seconda guerra mondiale ma depotenziano dall’interno i sistemi politici democratici esponendoli ovunque all’onda d’urto dei populismi di varia natura.

La dismissione della politica diviene obbiettivo della politica stessa nel corso degli anni Novanta, che vedono un ciclo elettorale generalmente favorevole alla sinistra ma insieme una riformulazione della sua tradizionale impostazione programmatica improntata alle esigenze del nuovo «capitalismo della conoscenza». Il Manifesto Blair-Schroeder, del 1999, è un tentativo di dare coerenza e dignità ideologica ad un nuovo approccio politico già invalso nelle pratiche di governo dei partiti socialisti europei. E’ un inno alla modernizzazione che perde ogni consapevolezza del carattere ciclico dello sviluppo capitalistico, ossia della sua tendenza strutturale ad alternare crescita e crisi. (…)
Questo modello teorico ha qualcosa da dire sui processi in corso. Penso in primo luogo alla svolta che si compie in Italia nel novembre del 2011. È la fine del progetto di rifondazione riformista e liberaldemocratica della politica italiana (il «paese normale») maturato nel 1989.

Il modello liberaldemocratico

La pressione dei mercati finanziari ha aperto la strada ad un vero e proprio «stato di eccezione» come forma di governo. Si accantonano passaggi decisivi della procedura democratica (in primo luogo il ritorno alle urne), naturalmente per «salvare» la democrazia. Con la nomina alla presidenza del consiglio di un «podestà straniero» (così nell’agosto si è esplicitamente definito Mario Monti sulle pagine del «Corriere della sera») si conseguono due risultati: a) l’Esecutivo viene formalmente espropriato della sua prerogativa di determinare l’ indirizzo di governo dell’economia, previa assunzione del programma scritto dalla Bce.

Il fenomeno sarà poi generalizzato in sede Ue nel giugno dell’anno successivo con l’approvazione del Fiscal Compact; la fine del bipolarismo, e del confronto aspro ma vitale tra destra e centrosinistra che ha in qualche modo tenuto all’erta la democrazia italiana nel degradante decennio berlusconiano, e la formazione di una maggioranza di «unità nazionale» (la terminologia comunista è suggerita dal Presidente della Repubblica in carica) che decuplica tutti i fenomeni degenerativi (trasformismo e corruzione) già in atto nel sistema politico italiano. È il principio liberaldemocratico dell’alternanza di governo che viene messo esplicitamente in discussione. (…)

Il superamento del passato è affidato per ora all’oblio. Bisognerà aspettare gli anni Settanta per avere gli inizi di un discorso pubblico sul nazismo. Ma ancora negli anni Ottanta, a proposito dell’Historikerstreit, si parlerà di «un passato che non passa». Negli anni Novanta la mostra di Amburgo che documenta su materiale fotografico russo i crimini commessi dalla Wehrmacht sul fronte orientale provoca forti tensioni nell’opinione pubblica.

Solo con la nuova, forte autostima nata dall’unificazione la Germania compie il superamento del passato, assumendo da un lato l’ assoluta centralità dell’Olocausto, che in qualche misura, paradossalmente, spinge in secondo piano la riflessione sul nazismo, e promovendo dall’altro una politica di monumentalizzazione della memoria delle vittime che ha il suo epicentro nella ricostruzione di Berlino. Se prima sono gli intellettuali che si interrogano e dibattono nella società civile sulla storia del paese ora sono le autorità pubbliche che decidono della politica della memoria. Il museo della Shoah si distende per una vasta area contigua alla porta di Brandeburgo quasi a ostentare la definitiva e piena assunzione di quel passato. La mappa della città mostra una singolare proliferazione di Gedankstaetten, luoghi di memoria che ripropongono con linguaggi museali volti alla diffusione di massa tutti gli orrori della storia tedesca. La nuova Germania unita è ormai determinata a mettere tutti gli scheletri fuori dagli armadi. Da questa proclamata e certo importantissima volontà di riconoscere un posto, senza più reticenza alcuna, a tutte le vittime del nazismo, si ricava quasi l’impressione di un eccesso di memoria: ricordare tutto per poter finalmente cominciare a dimenticare. (…)

La teoria dei due totalitarismi

La teoria dei due totalitarismi è l’altra gamba della politica della memoria della Ue. Si tratta anche in questo caso di un prestito dalla cultura liberale tedesca (l’ordoliberalismo) e austriaca (Hajek e von Mises) dei primi anni Quaranta, che ritorna ora improvvidamente sulla scena. Questo indirizzo di pensiero ha interpretato il collasso dei sistemi democratici nell’Europa tra le due guerre come il risultato di una cultura che ha violato la libertà del mercato con politiche di programmazione dello sviluppo economico. L’economia di guerra nazista, il piano sovietico, lo stesso keynesismo sono forme diverse di una medesima «road to serfdom», per riprendere le parole del celebre pamphlet hajekiano dell’aprile 1945. Del resto già nel 1943 gli ordoliberali tedeschi avevano attaccato il piano Beveridge mettendo in guardia la classe dirigente inglese dal favorire sul terreno economico l’avvento del fascismo che stava contrastando sui campi di battaglia.

Si tratta di una teoria pericolosa, nella sua astratta coerenza logica, perché ermeticamente chiusa ad ogni considerazione della storia, il cui unico ruolo è stato, ed è, quello di fungere come motivazione ideologica per la instaurazione e prosecuzione di una politica di guerra fredda. È all’ombra di questa teoria che nei paesi ex sovietici dell’Europa orientale si procede ora ad una piena rivalutazione delle memorie fasciste: in Croazia si rivaluta Pavelic, in Ungheria Horty . L’abbandono della seconda guerra mondiale come tema di riflessione per tutti i paesi della Ue ha dunque portato alla proliferazione di memorie – dispositivo, manipolabili perché scollegate da esperienze reali, come furono invece le memorie antifasciste nate dopo i 1945, e incapaci, paradossalmente, di contrastare la stessa ripresa dell’ antisemitismo che avanza nel ricorso sempre più generalizzato allo strumento della guerra.

INCONTRI

Gli appuntamenti del convegno romano

Il 26 febbraio si svolgerà a Roma – nella sede del Parlamento europeo in Via IV Novembre 149 – un seminario su «La questione tedesca e la crisi della democrazia in Europa», promosso dalla «Associazione per la storia e le memorie della repubblica», dalla rivista «Critica marxista» e dal gruppo Gue/Ngl del parlamento europeo, in collaborazione con l’«Associazione per il rinnovamento della sinistra», il «Centro riforma dello stato» e la Fondazione Rosa Luxemburg. I lavori cominceranno alle 9,30 con una sessione presieduta da Aldo Tortorella (direttore di Critica Marxista) e aperta dalla relazione di Leonardo Paggi. Discussants: Carlo Galli e Carlo Spagnolo. Seguirà la relazione di Aldo Barba. Discussants: Steffen Lehndorff e Antonella Stirati. Nel pomeriggio seconda sessione presieduta da Maria Luisa Boccia (Presidente del Centro Riforma dello Stato), aperta dalla relazione di Alessandro Somma su «L’ordoliberalismo e la cancellazione del costituzionalismo antifascista».